BLOG, istruzioni per l'uso:

La natura essenziale di questo blog è la possibilità di far incontrare idee che vagano nella mente dei blogger che vi partecipano. Il blog vuole essere la fornace per far nascere nuovi elementi. Tutti possono apportare idee, segnalare scritti la cui lettura può aprire nuovi orizzonti e far scaturire nuove avventure letterarie o per lo meno far riflettere sul loro contenuto. Ciò che più preme è creare l'occasione di far emergere parole che altrimenti resterebbero latenti all'infinito.
Ognuno di noi ha l'obbligo morale di attenersi a un comportamento che eviti di sconfinare e di percorrere strade che siano di confine.

sabato 6 settembre 2008

M@il di cuore, m@il d'amore


Finalmente, dopo cinque anni di attesa, il primo libro-dossier del Feroce Saladino è una realtà!
M@il di cuore, m@il d’amore è il suggestivo titolo di questa opera prima che si distingue per l’originalità dell’argomento, dei contenuti e anche della copertina, insolitamente double-face, dove la figura del Saladino interagisce con celebri icone artistiche (opere di De Chirico, Michelangelo e del Giambologna) in una divertente e geniale parodia che prelude all’impostazione ironica del libro stesso.
Il Saladino è un personaggio realmente esistito, una figura mitica del mondo islamico poiché a lui si deve la vittoria dei Saraceni e la riconquista definitiva di Gerusalemme, strappata ai Cristiani durante la II Crociata. Per noi Italiani è consuetudine premettere al nome del condottiero del XII sec. l’attributo di “feroce”, ciò non a causa di una reale efferatezza del valoroso sultano, ma perché una reinvenzione comica del Saladino era apparsa negli anni Trenta, quando nel nostro Paese un importante sponsor aveva istituito un concorso abbinato ad una trasmissione radiofonica molto popolare, “I quattro moschettieri” (1934), scatenando la ricerca della più rara e ambita figurina, "Il Feroce Saladino", appunto, fra le 100 stampate rintracciabili nei prodotti commercializzati.


Il “feroce Saladino” è anche lo pseudonimo adottato dall’autore per navigare lungo le rotte di Internet, dove ha “incrociato” diverse figure femminili, sconosciute sue corrispondenti delle community del web, anch’esse individuate solo da un fantasioso nomignolo. Il libro è strutturato in una raccolta di e-mail che vengono a formare sequenze di dialoghi, “virtuali” nella forma, ma genuini, autentici e assolutamente veritieri nel contenuto. Esse hanno come temi privilegiati l’amore, il sesso, la seduzione, le relazioni sentimentali che trovano espressione in un continuo, diretto, vitale confronto-scontro fra il punto di vista maschile e quello femminile. L’opera raggruppa in due sezioni distinte lo scambio di mail con donne di Firenze e Ferrara. Si tratta dunque di un originalissimo dossier, un libro-verità che documenta, con brillante ironia sorretta da una scrittura di fascinoso stile tragicomico e parodistico, la condizione dei rapporti uomo-donna in questa disincantata società moderna. L’organizzazione in forma di epistolario e il fondo di amarezza che si percepisce, dietro la levità e l’apparente divertimento del gioco, assimilano questa intensa e insieme gradevolissima opera al genere del romanzo epistolare di argomento amoroso, il cui paradigma sono: I dolori del giovane Werther, di Goethe, e Le ultime lettere di Jacopo Ortis, del Foscolo.
La “ferocia” dell’autore sta nel metodo: sono riportate integralmente, senza alcuna modifica, le parole di “Lui” e le risposte (spesso le “batoste”) di “Lei”. Ciò che ne scaturisce è un quadro assai poco lusinghiero e romantico del moderno “ragionar d’amore”. Potremmo considerarla la risposta, se non proprio la riscossa, degli ultraquarantenni ai facili entusiasmi, alle idealizzazioni erotico-sentimentali dei giovanissimi. M@il di cuore, m@il d’amore vs. Tre metri sopra il cielo? Ai lettori l’ardua sentenza.



Il libro può essere direttamente acquistato (solo 11 E.) direttamente dall'editore:

e-mail: flyingdutchman.pm@libero.it cell: 349 1248728

oppure dall'Autore: feroce.saladino@libero.it

e nelle principali librerie di Ferrara. Una copia si trova presso la biblioteca di Ostellato (FE).

martedì 11 marzo 2008

L'ultimo viaggio di Gulliver (Epilogo)
Il giorno dopo, fresco e riposato come non mi sentivo da tanto tempo, mi feci accompagnare da Jolanta che mi attendeva impaziente; quando mi vide si illuminò tutta come una bambina in procinto di trastullarsi con il suo giocattolo preferito.
- Finalmente, Gulliver! Ricordi che ieri sera avevi promesso di aiutarci a ritornare spensierate e felici come le nostre nonne?
- Certamente, principessa. E tu ricordi che ciò è sottoposto ad una piccola condizione?
- Sì, non l’ho dimenticato.
- Ebbene, ecco la modesta ricompensa che ti chiedo in cambio delle mie rivelazioni: mi aiuterai a raggiungere le colonie degli Spagnoli che si trovano oltre la palude?
- Senza alcun problema: una mia guarnigione ti accompagnerà fino alle terre abitate dagli uomini del nord.
- Grazie Jolanta. Con piacere ti svelo il segreto per riacquistare la felicità. Forse non sai che guardiane della Grande Sorella tengono prigionieri dei giovani uomini nell’intrico della foresta. Tu e le tue compagne dovrete liberarli portandoli qui, nel vostro nascondiglio. Sarete dolci e gentili con loro; li abbraccerete e li bacerete come fate con le vostre bambine. Lasciate che questi giovani vi accolgano fra le loro braccia, fatevi carezzare, non respingete le loro manifestazioni d’affetto, qualunque esse siano. Sarà molto divertente, vedrai. Ben presto tanti bambini allieteranno le vostre modeste dimore: abbiatene cura e cresceteli con amore. Dovrete raccogliere anche i piccoli che le sorelle abbandonano ai bordi delle paludi. Li alleverete come i vostri stessi figli. Dovrete educarli e istruirli aiutandovi con i libri che vi procurerete presso gli Spagnoli. I bambini diventeranno uomini, ricostruiranno le case, le strade e le macchine; rifioriranno la scienza, la tecnica, le arti, i mestieri, l’agricoltura e i commerci; riprenderanno gli scambi, riacquisterete il benessere di un tempo. La Grande Sorella sarà scomparsa per allora e nessuno vi impedirà di riunirvi pacificamente con le altre donne che abitano la penisola. Così il maschio e la femmina torneranno ad essere necessari gli uni alle altre, con reciproca soddisfazione, assecondando il disegno della natura. Questo è il segreto della felicità.
- Ti siamo infinitamente grate, Gulliver di questo insegnamento. Vorrei che tu rimanessi qui, in Arkadia, ma capisco che desideri tornare a casa.
- È così, infatti. Del resto sono già vecchio e non potrei farvi compagnia per molto tempo ancora. Fammi portare oltre le paludi.
Il giorno dopo vennero allestite due piroghe e alcune giovani guerriere mi condussero, attraverso le acque, fino alle regioni del nord. Qui fui ospite dei coloni Spagnoli e, alla prima occasione, mi imbarcai su un veliero diretto in Europa; dopo qualche mese ero di nuovo nella mia cara, vecchia Inghilterra.
Ora mi sono definitivamente ritirato e posso fare un bilancio della mia vita. Ho riportato l’amore tra l’uomo e la donna - anche se in una terra sperduta e lontana che nessuno conosce - e ciò è un’impresa non da poco che supera tutte le altre per cui sono famoso. Posso ritenermi soddisfatto. Attendo serenamente di imbarcarmi sulla nave del Grande Armatore per il mio ultimo viaggio.
ODyno

venerdì 8 febbraio 2008

L'ultimo viaggio di Gulliver (III)

- Galanta – le chiesi – io sono un medico e so come vanno le cose fra l’uomo e la donna secondo natura. Non ci possono essere nuove nascite, la popolazione non potrebbe crescere e neppure sopravvivere senza l’azione fecondante del maschio...
La mia interlocutrice dovette controvoglia fornirmi dei dettagli che certamente le risultavano sgradevoli. Accompagnando le sue parole con smorfie di disgusto, proseguì il racconto.
- Il problema della riproduzione si presentò alle antenate quando la comunità, che da anni aveva rinunciato al ricambio maschile, era ormai quasi priva di uomini validi: tutti i superstiti erano avanti con gli anni oppure già vecchi. Le nostre sorelle, allora, presero una drammatica decisione. Alcune donne, giovani, avvenenti e sane compirono l’estremo sacrificio congiungendosi carnalmente con gli uomini meno anziani di Arkadia, i quali, felicemente sorpresi da quel insperato godimento in una fase così avanzata della loro vita, ottusamente si lasciarono sedurre, abbandonandosi a quei tardi eccessi sessuali senza neppure interrogarsi sul motivo di tanta fortuna. Come sono stupidi gli uomini!
- Le nascite rifiorirono – proseguì – e si decise che le compagne avrebbero allevato i bambini più belli e forti, continuando a sbarazzarsi degli altri nel solito modo. Quei giovani maschi, i più robusti, fatti crescere entro gabbie o recinti nascosti nella foresta, divennero gli stalloni, i continuatori della nostra società. Alcune sorelle, con grande spirito di abnegazione, per il bene comune, ancora oggi accettano l’infamante compito di unirsi a questi esemplari da riproduzione per dare alla luce nuove sorelle e altre bestie-uomo su cui operare altre selezioni.
- E l’amore? – sbottai scandalizzato – non considerate questo sublime sentimento che rende l’uomo necessario e complementare alla donna e viceversa?
- Dell’amore carnale fra la bestia e la donna noi tutte abbiamo imparato che si può fare volentieri a meno; e non ci manca, non ne abbiamo nostalgia, né desiderio, anzi…
È una cosa disgustosa anche solo immaginare che i nostri pensieri, la nostra mente, il nostro cuore possano essere occupati e divenire ostaggio di un essere schifoso, violento, volgare, presuntuoso ed egoista come la scimmia-uomo. Noi sorelle proviamo un amore puro e incondizionato, non indotto dall’attrazione sessuale, per le nostre compagne e un profondo legame affettivo stringe fra loro figlie, nipoti e madri. La passione di due esseri di sesso opposto, se per malaugurata ipotesi dovesse mai verificarsi, sarebbe la forma d’amore più imperfetta, degenerata e umiliante che riprecipiterebbe la donna in una condizione di schiavitù, totalmente in balia dello scimmiesco essere maschile. Che la Grande Madre ci protegga da una simile, orrenda sciagura!
Per scongiurare tale disgrazia – concluse la regina con un lampo di violenta gravità negli occhi, lo stesso sguardo di quando ci eravamo incontrati la prima volta – ho dato personalmente ordine che le guardiane dei recinti con le bestie da riproduzione vengano cambiate ogni settimana.
Ero rimasto senza parole. Mi sentivo anche inquieto e vagamente in colpa per tutti i mali commessi dal genere cui appartenevo, come se tutto fosse avvenuto per opera mia. Quel antico odio maturato verso gli uomini, mi faceva temere una forma di vendetta nei miei riguardi.
Mi congedai dalla Sorella Regina e venni trasportato nel solito modo alla capanna assegnatami. Nei giorni successivi fui invitato diverse volte alla palafitta, dove spesso venivano a farmi visita donne arcadike di tutte le età. Soprattutto per le più giovani, che non avevano mai visto un essere umano di sesso maschile, dovevo costituire un’attrazione, come lo sono le bestie feroci dei circhi per noi occidentali. Sembrava impossibile che dietro quei tratti gentili di ragazze così ben educate e piene di vita, di madri o signore dai modi distinti ed eleganti, potessero nascondersi spietati carnefici, complici o consapevoli del crudele infanticidio, la strage degli innocenti su cui era fondata quella organizzazione sociale. Ne trassi la conclusione che presso questo popolo unicamente la persona di genere femminile aveva dignità di essere umano. Le donne ignoravano l’esistenza del maschio oppure ne avevano un lontano e sgradevole ricordo; l’uomo era assimilato ad un animale, inutile, pericoloso o molesto e potevano quindi sopprimerlo, ridurlo in schiavitù, servirsene per la riproduzione o schiacciarlo come un insetto schifoso, senza che la loro coscienza ne fosse turbata.

Trascorrevo le giornate narrando al gentile pubblico gli avvenimenti straordinari che diversi anni prima mi avevano portato alla scoperta del minuscolo popolo di Lilliput e di quello dei Giganti, del regno sull’Isola Volante e della terra dei Cavalli Intelligenti. Le incredibili avventure di cui ero stato protagonista risultavano particolarmente appassionanti per il mio uditorio che, per quanto mi era dato sapere, non aveva altre forme di svago o di divertimento. Non esistevano teatri o altri luoghi di intrattenimento in questa comunità; né vi era l’usanza di organizzare feste, serate di ballo, ricevimenti dove la gente potesse stare in allegria, cantare, danzare chiacchierare o bere un po’ di vino. Sembrava un popolo operoso, impegnato in attività manuali ed anche intellettuali, come comporre poesie o canzoni o declamare odi che celebravano la bellezza della natura e del corpo femminile, la giovinezza, la perfezione della donna, la meravigliosa esperienza della maternità, ma al fondo di tutto ciò percepivo un rigore malinconico, un’insoddisfazione trattenuta, una mancanza di entusiasmo, forse una punta di rassegnazione ad una esistenza creativa e laboriosa ma priva di slanci e turbamenti.
Anche a Silka, la mia nipotina adottiva cui dovevo la salvezza e con la quale trascorrevo molte ore inventando giochi, raccontando fiabe, costruendo piccoli oggetti di legno che la affascinavano come meravigliosi giocattoli, sembrava mancasse quella genuina e spensierata leggerezza che contraddistingue le bambine della sua età.
Anche le sue coetanee apparivano incapaci di divertirsi, di ridere con naturalezza oppure, al contrario, quando si appassionavano ad un gioco che avevo escogitato, ero costretto a prolungarlo all’infinito poiché avrebbero voluto che l’insolita esperienza di quella sensazione piacevole non dovesse mai terminare.
Il mio involontario ruolo di nonno e di intrattenitore di corte, esaurito il pathos iniziale, non aveva più il sapore della novità. Le giornate si susseguivano, tutte uguali, ed anch’io, superato il timore di essere assassinato, mi stavo lentamente lasciando andare – per quel poco di anni che il mio destino poteva ancora concedermi – ad una pericolosa indolenza.
Una sera, racchiuso nel mio insolito mezzo di trasporto, venivo ricondotto alla mia capanna, quando all’improvviso sentii la portantina ondeggiare pericolosamente prima di essere appoggiata a terra in tutta fretta. Non potevo vedere quello che succedeva, ma sentivo i rumori di una colluttazione, grida, colpi secchi, passi concitati. Poi la cesta venne risollevata e portata via velocemente, ma in tutt’altra direzione rispetto alla mia casupola. Alcuni minuti di corsa poi venni depositato su quella che doveva essere una piroga o una zattera. Avevo il cuore in tumulto. Temevo fosse arrivata la mia ultima ora. Forse un manipolo di scalmanate che aveva in odio l’uomo, come Galanta mi aveva preavvisato nel nostro primo colloquio, si era impadronito della cesta allo scopo di farmi annegare nella palude o di darmi in pasto ai caimani. Invece, dopo una tormentata navigazione, la gabbia venne issata su un pontile, io fui prelevato e condotto in una baracca di legno eretta su un isolotto che si trovava in un’area remota della palude.
Una giovane donna mi attendeva: lo sguardo fiero e sorridente, il biondo cespuglio di capelli percorso da tante piccole onde come il mare in prossimità della riva; la carnagione color ambra; le belle forme impudicamente svelate da un vestito leggero e succinto che certamente avrebbe fatto gridare allo scandalo le gentildonne inglesi ma che in questi luoghi, dove la temperatura è assai elevata e la seminudità condivisa da tutti senza malizia, era l’abbigliamento più adeguato a mostrare la bellezza di colei che lo indossava e la sua disinvolta natura.
- Gulliver, hai fatto buon viaggio? – disse senza tanti convenevoli – Spero che le mie guardie non ti abbiano sballottato troppo nel condurti qui.
- Oh sciocchezze! I viaggi per mare mi hanno abituato a ben altro: onde impetuose, burrasche, tempeste. Però non capisco il motivo di tanta urgenza. Eseguivate ordini della Grande Sorella?
- No, io non obbedisco a nessun ordine e tanto meno a quelli della vecchiaccia. È una mia iniziativa. Mi hanno parlato di te. So che sei un tipo divertente, racconti delle belle storie e noi qui ci annoiamo a morte… Dimenticavo le presentazioni. Il mio nome è Jolanta. Io e le mie compagne ci siamo nascoste nelle paludi perché non sopportiamo il regime di quella pazza.
- Galanta?
- Si. Già mia madre si era rifugiata qui, diverso tempo fa, per sfuggire alle imposizioni di quella fissata che parlava solo di doveri, sacrifici, impegno, lavoro, obbedienza…Chiedeva a tutte di collaborare, di rimanere unite, di lottare per realizzare il progetto della Grande Madre.
- Galanta me ne ha parlato. È una cosa orribile!... Quei poveri bambini sacrificati per impedire che diventassero uomini...
- È vero. E che cosa abbiamo ottenuto alla fine? La libertà? La sicurezza? Una vita più consapevole e dignitosa? Chi lo sa?... Di certo non abbiamo più svaghi e se avessimo dato retta a quella strega, dovremmo faticare tutto il giorno ed essere sempre pronte a renderci utili alle altre sorelle.
Io non so come si stava quando c’erano gli uomini, ma mia nonna mi aveva raccontato cose bellissime della sua gioventù. Era una ragazza molto attraente e in gamba; dicono che le assomigliassi moltissimo. Faceva la cortigiana. Si godeva la vita. Aveva un mucchio di amici maschi che le compravano splendidi vestiti, le regalavano monili d’oro, gioielli, brillanti; facevano a gara per ospitarla nelle loro ville signorili o a palazzo. La portavano a teatro, la invitavano alle feste, ai balli di corte, ai più sfarzosi ricevimenti. E tutto questo in cambio di un bel sorriso, qualche sguardo languido e un po’ di compagnia…
- Beata ingenuità! – pensai, ma non volli turbare quel suo innocente ricordo della nonna. Tuttavia devo riconoscere che la vita di una cortigiana, senza entrare in questioni morali, può risultare assai piacevole e apportare indubbi vantaggi a colei che la conduce.
- Anch’io vorrei fare la cortigiana. Sarebbe bello e divertente trascorrere le giornate a scegliere gli abiti più eleganti per essere ammirata dagli uomini. E profumarmi e pettinarmi e aver cura del mio corpo; e vivere in un palazzo sontuoso con ricchi tendaggi, tappeti, mobili, con un grande giardino pieno di fiori colorati e tanti domestici al mio servizio… Ma tutto questo, per colpa di quella strega, non è più possibile. Da quando non ci sono più i maschi a lavorare nei campi, a costruire case, ville e palazzi, a inventare e fabbricare tanti ingegnosi oggetti di legno e metallo, svolgendo anche con impegno le necessarie attività manuali, le compagne che si sono fatte fregare dalla Sorella Regina sono costrette a far da sé, a sobbarcarsi tutti i lavori, anche quelli pesanti che prima lasciavano agli uomini e ai servi. Sudano, si sformano e abbrutiscono per riuscire a campare con quello che la terra, faticosamente, concede. Rischiano la vita per procurarsi il cibo con la caccia o la pesca oppure si adattano a custodire e allevare gli animali puzzolenti di cui si nutrono. Siamo tutte obbligate a tirar su capanne o catapecchie di legno, a coprirci di stracci e ad arrangiarci alla meglio, perché non esistono più muratori e carpentieri, sarti e artigiani…
- Ma perché – la interruppi – qui c’erano case in muratura?
- Certo. Mia nonna e mia madre mi hanno raccontato tutto. Gli uomini hanno tanti difetti, ma quando ci si mettono sono proprio bravi. Con la sabbia e altri ingredienti che sapevano miscelare, tenevano insieme i mattoni ricavati dall’argilla; oppure tagliavano e squadravano le pietre che compravano dagli Spagnoli, così come il ferro e gli altri metalli che facevano arrivare attraverso le paludi.
Erano state costruite solide abitazioni e palazzi. I villaggi crescevano e si erano trasformati in popolose città con piazze, monumenti, strade e negozi. Comode vie di comunicazione avevano sostituito i polverosi sentieri di terra battuta. Ma ora è tutto in rovina: nessuna compagna è in grado di fare quei lavori e neppure di riparare i muri, i tetti, le porte e le finestre: così ci siamo ridotte a vivere in squallide capanne.
Gli ingegneri di Arkadia aveva inventato tante altre cose meravigliose e utili che ora giacciono abbandonate poiché non si riesce a fabbricarne di nuove o a farle funzionare. Nelle vaste pianure dove si coltivavano mais, canna da zucchero, pomodori, patate, cacao e cotone, gli aratri trainati dai buoi erano stati sostituiti da macchine semoventi che emettevano fumo e, utilizzando un ingegnoso meccanismo interno alimentato da un alcool derivato dalla patata e dalla canna, facevano risparmiare una grande fatica ai contadini e agli animali. Le strade che solcavano la foresta erano state realizzate con il dispiego di numerosi operai, ma ben presto vennero percorse da carri che non avevano più bisogno di essere tirati dai cavalli poiché ad essi era stato applicato un congegno meccanico interno, simile a quello degli aratri semoventi, costituito da ruote dentate, ingranaggi e catene che si muovevano da sole con l’energia fornita dall’alcool.
C’erano filande dove le donne producevano tessuti pregiati che poi i nostri sarti trasformavano in splendidi abiti, ma ora dobbiamo contentarci di ruvide tele e rozzi vestiti perché i grandi telai si sono fermati per sempre, sono ridotti a ingombranti rottami: gli ingegneri che possedevano il segreto del loro funzionamento sono tutti scomparsi e del resto neppure i sarti esistono più.
Gli uomini avevano anche costruito una lanterna magica che si illuminava su un lato, dove c’era un vetro dietro il quale si muovevano delle figure, si ascoltavano suoni e parole, come essere a teatro. Sembrava che dentro la scatola luminosa si muovessero minuscoli attori, ci fossero paesaggi, scene, fondali miniaturizzati: un mondo intero racchiuso in quella scatola magica.
Erano riusciti a imprigionare e dominare la tremenda potenza dei fulmini, distribuendola attraverso sottili fili metallici ricoperti di uno strano materiale che sembrava carta, ma molto più liscio e duttile. E questa energia circolava entro ampolle di vetro che si illuminavano come le nostre lampade a petrolio, rischiarando la notte più di mille candele. Ancora, con gli stessi fili riuscivano a portare la voce a grandissima distanza: due persone, tenendo vicino alla bocca una specie di corno da cui usciva una di questi cordicelle, potevano parlare fra loro, essendo ciascuna a casa propria, come si fossero trovate una di fronte all’altra anziché in due punti lontanissimi della città.
Lo stesso tipo di filo, uscendo da un grosso baule e infilandosi nei muri delle case, creava incredibilmente un bel freddo dentro il contenitore, cosicché i cibi e le bevande si potevano conservare per tanti giorni e la frutta era fresca e saporita come appena colta dall’albero.
Che cose straordinarie avevano inventato gli uomini!...E noi abbiamo perso tutto questo per colpa di quella tiranna.
- Jolanta, io conosco un modo per riavere indietro tutto ciò che avete perduto. – dissi con un sorriso volutamente enigmatico.
- Davvero riusciresti a procurarci ciò che rendeva felici le nostre antenate?
- Si, ma ad una condizione.
- Quale? Dimmi ciò che desideri e sarà tuo.
- Oh si tratta di una cosa modestissima, ma ora sono troppo stanco per parlartene. Devi avere pazienza fino a domani. Ho necessità di dormire.
- Come vuoi, Gulliver. Le mie compagne veglieranno il tuo sonno e che la notte ti porti consiglio.

[continua]

La conclusione del racconto, per motivi di suspense, sarà pubblicata al mio ritorno da un viaggio in cui cercherò di recuperare le energie spese per scrivere il racconto medesimo.
Vi do quindi appuntamento per le idi di marzo, quando l’attesa sarà spasmodica, sperando che nel frattempo non abbiate meditato di accoltellarmi…



Il SalaDyno

domenica 3 febbraio 2008

Laboratorio di Scrittura Stas' Gawronski - RAVENNA

Mi è arrivato il seguente avviso dalla Coop di RAVENNA:


Provincia di Ravenna


Anche quest’anno ……per il 5° anno consecutivo

LABORATORIO DI SCRITTURA CREATIVA
animato e condotto da

Stas’ Gawronski


autore e presentatore di “CultBook”, la trasmissione televisiva di Rai Educational dedicata ai libri e docente di scrittura creativa dell’associazione culturale “Bombacarta” (www.bombacarta.it)

Sabato 16 febbraio 2008
Sabato 15 marzo
Sabato 26 aprile
(ore 14:30 – 18:00)

Presso il bar “ Il Martin PescatoreGalleria ESPIpercoop Ravenna

Il laboratorio di scrittura creativa è aperto a chiunque desideri esercitarsi nell'arte dello scrivere testi di narrativa. L'iniziativa si propone di favorire lo sviluppo delle capacità espressive dei partecipanti attraverso l'approfondimento teorico e pratico dei principali aspetti del processo creativo (l'invenzione, l'ascolto, la revisione, ecc.) e degli elementi costitutivi della narrazione (il punto di vista, il dialogo, i personaggi, il ritmo, ecc.). Il lavoro svolto all' interno del laboratorio consente di acquisire una maggiore consapevolezza della propria scrittura e della propria voce narrante, migliorare la propria scrittura (in termini di accuratezza, coerenza e profondità dell'espressione), sviluppare la propria capacità di invenzione, accrescere la sensibilità necessaria a gustare e a valutare testi di narrativa.

Partecipazione gratuita con prenotazione obbligatoria
emontesi@racine.ra.it 349-2399025
Libreria Coop presso Galleria ESP- Ravenna

venerdì 1 febbraio 2008

L'ultimo viaggio di Gulliver (II)

Interrogando la mia interlocutrice, ebbi conferma dell’esattezza dei miei calcoli, eseguiti quando ancora mi trovavo sul veliero che poi mi avrebbe abbandonato in mare: ero approdato sulla punta meridionale della Florida, in un luogo sperduto, circondato su tre lati dall’oceano e separato di fatto dal continente americano a causa di una vasta palude che si estendeva a nord, dove l’acqua di mare era sostituita da quella stagnante degli acquitrini.
Galanta mi raccontò che il popolo di Arkadia – così chiamavano quella fertile terra -, gente laboriosa e pacifica, viveva al riparo dalle incursioni degli Spagnoli i quali non osavano addentrarsi nelle paludi infestate dagli alligatori, né potevano sbarcare in forze sulle coste sabbiose poiché i loro pesanti galeoni rischiavano di arenarsi sui bassi fondali che attorniavano la penisola. Del resto, fra quelle intricate foreste o nei malsani acquitrini i conquistadores non avrebbero trovato l’oro, il solo motivo che li spingeva ad avventurarsi in terre sconosciute ed ostili. Così, al riparo da guerre o scontri violenti, nel più totale isolamento, i nativi svilupparono una civiltà altamente progredita che si sostentava con i prodotti dell’agricoltura, della pesca e dell’allevamento e in cui progredivano le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia e le scienze.
- Gli uomini lavoravano nei campi, allevavano il bestiame, procuravano il cibo e fabbricavano strumenti utili a rendere il lavoro più agevole e meno faticoso – disse la mia ospite, con voce profonda e velata, socchiudendo gli occhi, come per inseguire con la mente lontani ricordi.
- Le donne – continuò – si dedicavano alla cura e all’educazione dei figli, svolgevano le necessarie attività domestiche e non mancavano di istruirsi e di accrescere la loro cultura, spesso manifestando un particolare talento per le belle arti, la poesia e la musica.
La buona terra, i pascoli, il mare ricco di pesce offrivano tutto quanto era necessario per vivere. L’abbondanza di frutti, la grande disponibilità di prodotti agricoli e di bestiame, la quantità di oggetti e manufatti artigianali, molto superiore al fabbisogno, spinsero i nostri progenitori ad allacciare rapporti commerciali con le colonie spagnole al di là delle paludi. Servendosi di barche piatte e leggere, frutto dell’ingegno e della maestria dei falegnami arkadici, gli uomini avevano ristabilito vie di comunicazione e di commercio attraverso la palude. Purtroppo, insieme con il denaro e l’oro che iniziarono ad affluire in conseguenza degli scambi con le corrotte comunità del nord, si diffusero ben presto anche fra la nostra gente, l’avidità, la sete di ricchezza e i soprusi. Così i nostri avi persero per sempre la loro innocenza.
In un tono più cupo, la Grande Sorella proseguì il suo racconto:
- Alcuni uomini senza scrupoli, arricchitisi con il commercio del tabacco e di una acquavite ricavata dalla canna da zucchero, molto gradita agli Spagnoli, per incrementare i loro affari escogitarono una soluzione che ebbe conseguenze devastanti sul nostro sistema sociale. Essi pretesero che le singole proprietà e i relativi proventi, quest’ultimi spontaneamente condivisi fra le persone secondo princìpi di reciproco aiuto, di scambio, di collaborazione, di equità, fossero ben individuate e distinte; e coloro che risultavano possedere poco o nulla, i più poveri, in cambio di pochi miseri denari, per sopravvivere, erano costretti a lavorare alle dipendenze dei più abbienti, faticando come schiavi nei campi o nelle squallide costruzioni adibite ad opifici. Anche le donne, spinte dalla necessità, dovettero lasciare le loro tranquille dimore, trascurando i figli, abbandonando gli studi e le attività intellettuali, rinunciando ai propri interessi ed inclinazioni, per svolgere mansioni umilianti e ripetitive al soldo dei ricchi possidenti.
Uno dei più grossi latifondisti si era proclamato sovrano ed essendosi circondato di un potente esercito di mercenari, obbligava i suoi sudditi ad onorarlo e a servirlo, stabilendo dei pesanti tributi che essi dovevano corrispondergli sotto forma di denaro o con prestazioni d’opera, a pena della vita. Il tiranno aveva monopolizzato le uniche vie di comunicazione per i commerci attraverso le acque stagnanti. Si era accaparrato tutte le barche disponibili e, costituita una compagnia di “scafisti”, come venivano chiamati, cioè una banda di avventurieri che era incaricata di trasportare le merci sulle imbarcazioni del re, ricavava guadagni altissimi da quei traffici privi di concorrenza, e se qualcuno cercava di opporsi o di attraversare le paludi con i propri mezzi, veniva eliminato.
L’incremento di denaro attraverso i commerci e le attività illecite favorì soprattutto i più avidi e spregiudicati, i violenti e i corrotti, chi si imponeva con forza e prepotenza, mentre le persone più pacifiche e rispettose si impoverivano sempre di più, trasformandosi in una massa di servi-lavoratori in mano ai latifondisti che si erano appropriati di tutti i terreni coltivabili.
La situazione rapidamente precipitò; le forti tensioni sociali diedero luogo a lotte furibonde e cruente che culminarono nella guerra civile. Le sciagure sembravano non aver mai fine: alla guerra seguirono lunghi anni di stenti poiché più nessuno lavorava, essendo chiamato a combattere per la propria sopravvivenza. L’economia del paese subì il tracollo; gli scambi commerciali e gli affari si bloccarono; i campi, un tempo rigogliosi di frutti, di piante, di ortaggi, divennero scenario di scontri sanguinosi, battaglie, devastazioni. La popolazione maschile venne decimata dalle guerre e dalle carestie. Fu allora, quando il tiranno riprese il potere che fu imposta alle donne la condizione più umiliante: sostituire gli uomini, i braccianti, i servi della gleba nel lavoro sui campi, nelle attività logoranti e faticose. In quegli anni di feroci sopraffazioni, la violenza maschile divenne la principale causa di morte per le nostre antenate, le quali erano oggetto di stupri o dovevano soggiacere ai turpi godimenti della soldataglia.
In quel cupo periodo di decadenza, una donna straordinaria e determinata, la Grande Madre, a cui noi tutte ci inchiniamo, guidò le sorelle verso la vittoria, la riconquista della libertà e della dignità. La Grande Madre aveva partorito un’idea semplice quanto geniale che avrebbe messo fine alle nostre sofferenze: se l’imperfetto essere maschile era all’origine dei mali che affliggevano la comunità, se la bestia-uomo era causa di violenza, corruzione e soprusi, allora si rendeva necessario estirpare quella pianta infestante che impediva al popolo femminile di crescere in prosperità e in pace -.

Avevo seguito il racconto della Grande Sorella con grande partecipazione, ma non riuscivo a capire quelle sue ultime frasi, cariche di speranza ma anche di un oscuro senso di minaccia.
- Che è dunque successo ai vostri uomini? – chiesi allarmato – Sono scomparsi a causa delle malattie e delle guerre? Sono stati catturati dagli Spagnoli? – Ero convinto che qualcosa di drammatico fosse avvenuto non molto tempo prima del mio arrivo in quel luogo e che questa fosse la ragione della diffidenza e dell’ostilità con cui ero stato accolto.
- No. Portando a compimento il disegno della Grande Madre, che è nostro dovere applicare ancora oggi, le nostre progenitrici si sono liberate degli uomini di Arkadia.
- Ma come è possibile? I maschi hanno una maggiore forza fisica, come avete fatto a cacciarli via?
- Non li abbiamo cacciati ma ridotti in minoranza ed eliminati a poco a poco evitando che si riproducessero. Le nostre madri sono riuscite a controllare le nascite in modo che non ci fossero più nuove generazioni maschili in grado di sostituirsi a quelle dei padri nelle angherie e nei soprusi.
- Terribile! E con quale coraggio avete impedito a quei poveri bambini di diventare adulti?
- Oh è stato straordinariamente semplice. La Grande Madre aveva visto giusto. Vi fu un segreto accordo fra le sorelle, una santa alleanza a cui tutte aderirono. Quando nasceva una femmina, questa veniva allevata e curata amorevolmente, nel migliore dei modi ed era una festa per tutte. Se invece nasceva un maschio, la levatrice lo faceva sparire abbandonandolo nella foresta o ai margini della palude. Al padre si riferiva che il parto non era andato a buon fine o che il figlio era morto poco dopo aver visto la luce.
Mi si era gelato il sangue nelle vene, riuscii solo a dire:
- Che orribile barbarie! Che crudeltà!
- Era necessario. Dovevamo spezzare quella catena a cui l’uomo ci aveva assoggettato. Del resto, voi che abitate oltre l’oceano o nelle terre del nord non avete usato ancor maggiore ferocia nell’impadronirvi di altri popoli che vivevano pacifici, privandoli della libertà e della vita; obbligandoli a lavorare, uccidendo, violentando, deportando? E gli Spagnoli venuti da lontano per depredarci e renderci schiavi, non hanno forse portato morte e distruzione nelle terre dove conficcavano le loro insegne?
Dovetti riconoscere che aveva ragione. Spagnoli e Portoghesi erano venuti in America in cerca di oro, ricchezze, terre da conquistare, popoli da sottomettere e convertire, schiavizzando e massacrando gli indigeni. Ma anche noi Inglesi, pur accomunati dalla stessa religione cristiana che predica la tolleranza e la carità, avevamo le nostre colpe e non erano scopi pacifici quelli che ci avevano spinto a fondare nuove colonie in Asia, in Africa ed ora a rivaleggiare con gli Spagnoli nel Nuovo Continente.
Quei discorsi mi avevano bloccato la digestione, ma ormai ero preso nella spietata logica di un colloquio in cui, mio malgrado, mi sentivo chiamato in causa. Ero l’unico uomo di quella comunità: dovevo difendere la mia natura e il genere cui appartenevo.
- Come è stato possibile – domandai – sottrarre i neonati maschi all’amore spontaneo delle loro madri? È un atto contro natura!
- Ci eravamo organizzate. Quando si trattava di un parto gemellare misto, la neonata femmina assorbiva con la sua presenza tutto l’amore della mamma, compensando la perdita dell’altro figlio. Quando nasceva solo un bambino e questo veniva necessariamente eliminato secondo le regole che ci eravamo imposte, la madre trovava consolazione nella cura di bambine non sue, messe a disposizione dalla comunità che così, lentamente, si spopolava di maschi.
- Spaventoso! Come potevano non accorgersi, quei padri mancati, di quel lento sterminio di bimbi innocenti?
- Alle bestie-uomo non interessano i bambini: smaniano solo per il sesso, il denaro e gli altri vizi. Le madri che si privavano del loro figlio maschio avevano accettato anche un ulteriore sacrificio, non meno gravoso del primo: distrarre l’uomo-padrone con un’intensa attività sessuale, in modo da tenerlo occupato e impedire che si lamentasse per l’incapacità della compagna di procurargli un erede. Tutte quante noi che oggi godiamo della piena libertà su questa terra, dobbiamo ringraziare quelle coraggiose progenitrici che, soddisfacendo le disgustose voglie degli uomini, ci hanno permesso di vivere affrancate dal maschio oppressore.
Non volli fare commenti, ma ero perplesso oltre che inorridito. Come potevano verificarsi nuove nascite in una società di sole donne da cui il sesso, e quindi l’evento riproduttivo che sta alla base della vita, stando alle affermazioni della regina, era stato bandito?

[continua]

sabato 22 dicembre 2007

L'ultimo viaggio di Gulliver

L’ultimo viaggio di Gulliver (I)

Sono ormai anziano. Ho molto viaggiato nella mia vita e visto cose straordinarie e incredibili che ho trasferito nei miei diari. Devo ad essi una certa notorietà, ma non sempre la fama apporta vantaggi ai propri eletti. Molti pensavano che mi fossi inventato tutto. Altri mi hanno creduto pazzo. Cose passate.
Mi ero ritirato in campagna e conducevo una vita tranquilla e senza scosse, quasi noiosa. Un giorno un mio caro amico, dovendo affidare il suo mercantile ad un giovane capitano per un lungo viaggio in mare, conoscendo la mia esperienza, tanto mi pregò e tanto fu abile nel convincermi che alla fine accettai di imbarcarmi sulla nave, ufficialmente nel ruolo di medico di bordo, ma con il segreto incarico di promuovere gli affari nel Nuovo Continente, allacciare rapporti con i locali ed essere di aiuto durante la navigazione.
Salpammo il 6 maggio 1735 dal porto di Dublino, dirigendoci verso sud, per evitare l’insidioso canale fra l’Irlanda e la Scozia. Circumnavigata la verde terra irlandese, puntammo decisamente la prora verso sud-ovest, per attraversare l’Atlantico e raggiungere le nuove colonie inglesi d’America.




Dopo diverse settimane di tranquilla navigazione, il caso volle che la mia identità, nota solamente al comandante e all’armatore, venisse scoperta. La notizia si sparse rapidamente fra la ciurma che cominciò ad agitarsi. È noto quanto i marinai siano superstiziosi. Essi, basandosi sulle scarse notizie relative ai miei precedenti viaggi per mare, si erano convinti che io recassi sciagure e sfortune alle navi di cui ero ospite: invariabilmente si scatenavano terribili tempeste, oppure la nave andava alla deriva, si perdeva, era assalita dai pirati o faceva naufragio.






Così, sotto la minaccia di un ammutinamento, il capitano fu costretto a calarmi in una scialuppa con una piccola provvista di acqua e cibo, in un angolo sperduto dell’oceano lontano dalle rotte commerciali. Mi trovavo probabilmente al largo delle coste della Florida.
Trascorsi qualche giorno in balia dei venti e delle onde, non potendo e non sapendo dove dirigermi. Attorno a me solo l’immensità del mare e l’azzurro del cielo. Finalmente, il 7° giorno, intravidi una linea di costa sabbiosa ricoperta di un rigoglioso manto verde.





Aiutandomi con i remi, quando fui più vicino mi accorsi che si trattava di una intricata foresta che si protendeva fin sull’acqua, dove le mangrovie affondavano le loro radici aeree, lunghe ed esili, come zampe di bizzarri fenicotteri dal verde piumaggio.






Guadagnai la riva in un tratto sgombro dalla vegetazione. La spiaggia sembrava deserta, ma appena mi inoltrai fra le piante in cerca di una fonte per dissetarmi, venni circondato da un gruppo di donne dall’aspetto fiero, armate di rudimentali lance, archi e curiose spade di legno che portavano al fianco.
Mi immobilizzarono le braccia con certe liane usate a mo’ di corda, quasi che io, disarmato, privo di forze e solo, potessi costituire una minaccia o un pericolo per quel gruppetto di indigene, armate, giovani ed energiche. Mi obbligarono a seguirle, incitandomi con le lance e tirandomi con la corda che mi avevano messo al collo, come noi usiamo fare con le bestie e i cani. Dopo una marcia interminabile, arrivammo ai piedi di una capanna-palafitta che sembrava essere la costruzione più grande ed elevata di un villaggio formato da abitazioni più modeste raccolte ai margini di un’immensa palude. La palafitta fortificata era sospesa sulle acque che si estendevano a vista d’occhio oltre i pali di sostegno. Sul davanti, due scalette praticabili erano sorvegliate da altrettante guardie, anch’esse giovani e di sesso femminile. Fui portato al cospetto di un’anziana signora che indossava abiti di fattura assai grossolana e sfoggiava anelli e monili di scarsa valore ma con la pretenziosità di una principessa. Era chiamata “Grande Sorella”. Riuscivo a comprendere il loro linguaggio poiché mescolava un originario dialetto locale ad una forma arcaica di spagnolo, lingua diffusa nel continente americano in seguito alla colonizzazione iniziata nel XVI secolo. Stranamente, sia nel villaggio come presso l’esercito o la “corte” che attorniava la regina di quella misteriosa tribù, non vi erano uomini. Pensai che la popolazione maschile si fosse attardata nella foresta per una battuta di caccia o per portare a termine un importante lavoro, e che sarebbe tornata con il buio; oppure che era trattenuta in un territorio lontano da esigenze di difesa o azioni di guerra. Ma come si spiegava, allora, anche l’assenza di bambini maschi e di anziani? Mentre mi conducevano alla palafitta, incrociammo solamente ragazze e giovani donne che mi guardavano con curiosità e diffidenza; altre, anziane, mi erano apertamente ostili. La Grande Sorella si rivolse a me con la gravità di un giudice quando pronuncia la sentenza e infligge la pena:
- Straniero – disse con voce metallica – il nostro popolo non tollera la tua presenza. Dovrai andartene attraverso la grande palude e raggiungere i tuoi simili procedendo verso nord. Se invece cercherai di tornare indietro, ti aspetta la morte! -
- Grande Sorella, lo vedi, sono vecchio e debole e questa terra mi è sconosciuta. Sono stato abbandonato in mare; non sono giunto qui per mia volontà. Perché questa dura punizione? Di quale colpa mi accusi?.
- La tua fisionomia, la barba e le vesti che indossi tradiscono la tua colpa: appartieni al genere maschile e per questo devi andartene, non puoi mescolarti con le nostre sorelle e guastarle come solo le bestie-uomo riescono a fare.
- Ma nella palude ci sono serpenti, alligatori e mille pericoli – cercai di protestare.


- Non ci riguarda. Ti lasceremo la barca con cui sei approdato alle nostre rive. Con la stessa dovrai andartene.
- Perché tanta crudeltà? Che delitto c’è nell’essere uomo?
- Straniero, ti è stato concesso già troppo tempo. Passerai la notte sotto sorveglianza del corpo di guardia e domani sarai scortato là dove iniziano le acque basse.

“Eccomi ancora in pericolo di vita! - pensai – di nuovo solo ad affrontare l’ignoto!“
Stavo per essere portato via dalle amazzoni che mi avevano catturato quando, dalla stessa apertura verso cui mi guidavano sbucò correndo una bambina con una bambola di pezza in mano.
- Nonna, Nonna! – gridava – Voglio vedere… - Si interruppe trovando il piccolo drappello a sbarrarle la strada. Istintivamente allungai le braccia per evitare lo scontro, poiché, trascinata dal suo impeto, la piccola mi sarebbe certamente venuta addosso. Il mio gesto protettivo si trasformò spontaneamente in una carezza sui capelli neri e lisci di quella vivace creatura che non doveva avere più di 8 anni. Lei alzò gli occhi scuri e innocenti verso di me, sorridendo stupita, poi, rivolgendosi alla Grande Sorella:
- Che buffa questa nonna con i capelli sulla bocca come le scimmie! – disse, riferendosi alla mia barba, attributo maschile assai comune ma che evidentemente vedeva per la prima volta. Non capivo però perché mi chiamasse “nonna”.
- Silka, questa è una scimmia molto cattiva capitata qui per caso, ma stava per andarsene – Intervenne il mio severo giudice, ora inspiegabilmente intenerito e aggiunse:
- È pericoloso per te rimanere qui; torna a giocare nella tua capanna!
- Non andare via, nonna-scimmia! – implorò con irresistibile simpatia la mia piccola salvatrice - Rimani a giocare con me! -
La piccola doveva avere molto ascendente sulla Sorella anziana: gli occhi di questa, prima gelidi e spietati, ora sembravano aver recuperato una luce di umanità e la voce si era inaspettatamente ammorbidita, rivelando un tono di trattenuto divertimento. Per salvarmi, puntai tutto sul suo evidente affetto per la bambina:
- Se la Grande Sorella me lo concede – dissi rivolto a Silka – costruiremo insieme un bellissimo aquilone e poi andremo sulla mia barca e ti insegnerò a pescare.
- Sì,sì pescare, che bello. Ma cos’è “aquilone”? – chiese ingenuamente con le luminose sue perle nere sfavillanti di curiosità.
- È una piccola vela colorata che faremo volare in cielo.
Avevo conquistato la bambina, ma commosso anche la Grande Sorella, che osservò:
- Straniero, tu non sei come le altre bestie-uomo. Qual è il tuo nome?
- Gulliver, Lemuel Gulliver, medico di bordo sulle navi di sua Maestà Britannica.
- Gulliver, potrai rimanere qui in pace in una capanna che ti procureremo. Alcune delle mie guardie saranno a tua disposizione e ti proteggeranno da eventuali atti violenti di alcune nostre sorelle più esagitate.
- Oh Grande Sorella, ti ringrazio! – dissi sollevato e aggiunsi: – Sono un uomo pacifico; perché mai il vostro popolo dovrebbe farmi del male?
- Perché i tuoi simili sono malvagi e hanno procurato gravi sciagure alle nostre antenate in passato. Ma di questo parleremo domani, se vorrai. Ho l’alto onore di amministrare la giustizia e sovrintendere ad altri compiti istituzionali per il bene della città. Ora non posso concedermi distrazioni. – Mi congedai con un grande inchino lasciandomi condurre dalla scorta al mio rustico alloggio: una capanna di legno con un giaciglio, un lume e poche suppellettili. Ero troppo stanco per raccogliere le idee o anche solo guardarmi d’attorno. La settimana passata quasi insonne sulla barca e le emozioni di quel primo giorno presso la misteriosa comunità di cui ero ospite, mi avevano molto affaticato. Mi stesi sul letto e dormii come un sasso per parecchie ore.
L’indomani fui convocato dalla Grande Sorella che aveva predisposto per me una specie di portantina con la forma di un grosso baule in vimini. Fui invitato ad entrare in quella che aveva tutto l’aspetto di una gabbia per le bestie feroci. Due pali sorreggevano il voluminoso contenitore, trasportato a spalla da quattro robuste giovani. La portantina era completamente chiusa sui lati, così non potei osservare gli abitanti del villaggio durante il tragitto, ma nemmeno loro potevano distinguere il pericoloso animale barbuto racchiuso nella cesta.
Il sole era già alto. Mi ricordai con nostalgia che più o meno a quell’ora, nella mia casa di campagna ero solito sedermi a tavola per il pranzo. Per fortuna, anche presso quel popolo vi era la medesima usanza. Galanta, questo era il nome della Grande Sorella come appresi in seguito, aveva fatto preparare dei cibi che mangiai con gusto. Lei mi fece compagnia ma assaggiando solo poche vivande, con frugalità. Vi erano ciotole contenenti frutta e verdura, pannocchie di mais abbrustolito, patate, pomodori, carote, frutta tropicale, banane piccole e dolcissime, ananas, agrumi e tanti altri prodotti della terra che non avevo mai visto. In un contenitore c’erano delle tortillas, focacce, probabilmente derivate dal frutto della manioca che sostituivano egregiamente il pane. Alcuni ampi vassoi ospitavano carne di tacchino e di maiale e altre vivande che potrei definire “cacciagione” in quanto – così mi informarono – comprendevano animali di palude: capibara, uccelli, rane e, purtroppo per me, abituato ai sapori della nostra civiltà, anche serpenti, pipistrelli e insetti. Naturalmente non mangiai tutto ciò che così generosamente mi veniva offerto, ma feci piccoli assaggi soddisfacendo la curiosità e il gusto non meno dell’appetito. Il pesce ovviamente era ben rappresentato su quella tavola imbandita; sia quello d’acqua dolce, sia quello di mare, o forse dovrei dire di costa, giacché la comunità di femmine evidentemente non disponeva di navi in grado di spingersi in mare aperto, ma solo di piccole imbarcazioni per la pesca in acque poco profonde, oppure – ancor più probabile – non vi erano uomini validi, e quindi marinai, in grado di avventurarsi al largo. Avrei volentieri accompagnato il mio pasto con qualche sorso di buon vino spagnolo o francese, ma le bevande che mi portarono, peraltro gradevoli e dissetanti, erano tutte a base di frutta e non alcoliche.
Quando mi fui a sufficienza saziato, come è buona usanza di ogni gentiluomo inglese degno di questo nome, essendo ospite di una signora e volendo renderle il dovuto omaggio, mi sentii in dovere di fare qualche domanda alla nobildonna di cui avevo conquistato la stima, al fine di avviare una salottiera conversazione. Invero non ero mosso unicamente da doveri di cortesia, ma da viva curiosità e legittima preoccupazione per la mia sorte in quel lontano paese. Dapprima il colloquio non mancò di appassionarmi, ma ad un certo punto le inaspettate rivelazioni della Grande Sorella, furono così sconvolgenti che di nuovo temetti per la mia incolumità.

[continua]

Se una notte d'inverno un narratore...

Nel post qui sopra ho esposto l’incipit di un racconto di mia invenzione che potrebbe fornire lo spunto per un “gioco” narrativo, un esercizio di fantasia, costituire il soggetto di una trama da sviluppare applicando la sequenza indicata da Davide Bregola.
Si tratta di dare un seguito alla storia proposta, modificando anche l’incipit, se occorre. La mia intenzione è metafisica: esplorare con la fantasia un luogo immaginario, una terra priva di uomini (o affrancata dagli uomini…), nel senso di maschi, abitata solo da donne che hanno quindi potuto costituire e liberamente organizzare una società tutta al femminile.
Le aspiranti scrittrici potranno sbizzarrirsi a descrivere un mondo “liberato” dal genere maschile; e gli aspiranti scrittori dovranno calarsi in una sensibilità “al femminile” per rappresentare questa società di sole donne.

Tutti, se interessati, dovranno dare una risposta e una soluzione “narrativa” ai seguenti quesiti:

· come si è venuta a creare quella condizione?
· che fine hanno fatto i maschi?
· come è organizzata la società delle donne?
· qual è il conflitto e il possibile sviluppo del racconto?
· come si scioglie l’intreccio?

Naturalmente io ho già qualche idea che cercherò di elaborare nelle prossime settimane.

Il racconto potrebbe essere scritto e concludersi nei modi più diversi: sarebbe una sorta di novella “interattiva” per la quale sono possibili le più diverse soluzioni, vagamente rifacendosi alla tecnica narrativa del romanzo di I. Calvino “Se una notte d’inverno un viaggiatore” - dove sono raggruppati una serie di incipit di storie incomplete -, al “giallo” di Fruttero e Lucentini: “La donna della domenica” e al più recente: “Donne informate sui fatti” di Fruttero (unico superstite della gloriosa coppia di scrittori).
Oppure potrebbe dar luogo ad un racconto a più mani, il saggio finale della Scuola di scrittura.

Aladyno