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sabato 22 dicembre 2007

L'ultimo viaggio di Gulliver

L’ultimo viaggio di Gulliver (I)

Sono ormai anziano. Ho molto viaggiato nella mia vita e visto cose straordinarie e incredibili che ho trasferito nei miei diari. Devo ad essi una certa notorietà, ma non sempre la fama apporta vantaggi ai propri eletti. Molti pensavano che mi fossi inventato tutto. Altri mi hanno creduto pazzo. Cose passate.
Mi ero ritirato in campagna e conducevo una vita tranquilla e senza scosse, quasi noiosa. Un giorno un mio caro amico, dovendo affidare il suo mercantile ad un giovane capitano per un lungo viaggio in mare, conoscendo la mia esperienza, tanto mi pregò e tanto fu abile nel convincermi che alla fine accettai di imbarcarmi sulla nave, ufficialmente nel ruolo di medico di bordo, ma con il segreto incarico di promuovere gli affari nel Nuovo Continente, allacciare rapporti con i locali ed essere di aiuto durante la navigazione.
Salpammo il 6 maggio 1735 dal porto di Dublino, dirigendoci verso sud, per evitare l’insidioso canale fra l’Irlanda e la Scozia. Circumnavigata la verde terra irlandese, puntammo decisamente la prora verso sud-ovest, per attraversare l’Atlantico e raggiungere le nuove colonie inglesi d’America.




Dopo diverse settimane di tranquilla navigazione, il caso volle che la mia identità, nota solamente al comandante e all’armatore, venisse scoperta. La notizia si sparse rapidamente fra la ciurma che cominciò ad agitarsi. È noto quanto i marinai siano superstiziosi. Essi, basandosi sulle scarse notizie relative ai miei precedenti viaggi per mare, si erano convinti che io recassi sciagure e sfortune alle navi di cui ero ospite: invariabilmente si scatenavano terribili tempeste, oppure la nave andava alla deriva, si perdeva, era assalita dai pirati o faceva naufragio.






Così, sotto la minaccia di un ammutinamento, il capitano fu costretto a calarmi in una scialuppa con una piccola provvista di acqua e cibo, in un angolo sperduto dell’oceano lontano dalle rotte commerciali. Mi trovavo probabilmente al largo delle coste della Florida.
Trascorsi qualche giorno in balia dei venti e delle onde, non potendo e non sapendo dove dirigermi. Attorno a me solo l’immensità del mare e l’azzurro del cielo. Finalmente, il 7° giorno, intravidi una linea di costa sabbiosa ricoperta di un rigoglioso manto verde.





Aiutandomi con i remi, quando fui più vicino mi accorsi che si trattava di una intricata foresta che si protendeva fin sull’acqua, dove le mangrovie affondavano le loro radici aeree, lunghe ed esili, come zampe di bizzarri fenicotteri dal verde piumaggio.






Guadagnai la riva in un tratto sgombro dalla vegetazione. La spiaggia sembrava deserta, ma appena mi inoltrai fra le piante in cerca di una fonte per dissetarmi, venni circondato da un gruppo di donne dall’aspetto fiero, armate di rudimentali lance, archi e curiose spade di legno che portavano al fianco.
Mi immobilizzarono le braccia con certe liane usate a mo’ di corda, quasi che io, disarmato, privo di forze e solo, potessi costituire una minaccia o un pericolo per quel gruppetto di indigene, armate, giovani ed energiche. Mi obbligarono a seguirle, incitandomi con le lance e tirandomi con la corda che mi avevano messo al collo, come noi usiamo fare con le bestie e i cani. Dopo una marcia interminabile, arrivammo ai piedi di una capanna-palafitta che sembrava essere la costruzione più grande ed elevata di un villaggio formato da abitazioni più modeste raccolte ai margini di un’immensa palude. La palafitta fortificata era sospesa sulle acque che si estendevano a vista d’occhio oltre i pali di sostegno. Sul davanti, due scalette praticabili erano sorvegliate da altrettante guardie, anch’esse giovani e di sesso femminile. Fui portato al cospetto di un’anziana signora che indossava abiti di fattura assai grossolana e sfoggiava anelli e monili di scarsa valore ma con la pretenziosità di una principessa. Era chiamata “Grande Sorella”. Riuscivo a comprendere il loro linguaggio poiché mescolava un originario dialetto locale ad una forma arcaica di spagnolo, lingua diffusa nel continente americano in seguito alla colonizzazione iniziata nel XVI secolo. Stranamente, sia nel villaggio come presso l’esercito o la “corte” che attorniava la regina di quella misteriosa tribù, non vi erano uomini. Pensai che la popolazione maschile si fosse attardata nella foresta per una battuta di caccia o per portare a termine un importante lavoro, e che sarebbe tornata con il buio; oppure che era trattenuta in un territorio lontano da esigenze di difesa o azioni di guerra. Ma come si spiegava, allora, anche l’assenza di bambini maschi e di anziani? Mentre mi conducevano alla palafitta, incrociammo solamente ragazze e giovani donne che mi guardavano con curiosità e diffidenza; altre, anziane, mi erano apertamente ostili. La Grande Sorella si rivolse a me con la gravità di un giudice quando pronuncia la sentenza e infligge la pena:
- Straniero – disse con voce metallica – il nostro popolo non tollera la tua presenza. Dovrai andartene attraverso la grande palude e raggiungere i tuoi simili procedendo verso nord. Se invece cercherai di tornare indietro, ti aspetta la morte! -
- Grande Sorella, lo vedi, sono vecchio e debole e questa terra mi è sconosciuta. Sono stato abbandonato in mare; non sono giunto qui per mia volontà. Perché questa dura punizione? Di quale colpa mi accusi?.
- La tua fisionomia, la barba e le vesti che indossi tradiscono la tua colpa: appartieni al genere maschile e per questo devi andartene, non puoi mescolarti con le nostre sorelle e guastarle come solo le bestie-uomo riescono a fare.
- Ma nella palude ci sono serpenti, alligatori e mille pericoli – cercai di protestare.


- Non ci riguarda. Ti lasceremo la barca con cui sei approdato alle nostre rive. Con la stessa dovrai andartene.
- Perché tanta crudeltà? Che delitto c’è nell’essere uomo?
- Straniero, ti è stato concesso già troppo tempo. Passerai la notte sotto sorveglianza del corpo di guardia e domani sarai scortato là dove iniziano le acque basse.

“Eccomi ancora in pericolo di vita! - pensai – di nuovo solo ad affrontare l’ignoto!“
Stavo per essere portato via dalle amazzoni che mi avevano catturato quando, dalla stessa apertura verso cui mi guidavano sbucò correndo una bambina con una bambola di pezza in mano.
- Nonna, Nonna! – gridava – Voglio vedere… - Si interruppe trovando il piccolo drappello a sbarrarle la strada. Istintivamente allungai le braccia per evitare lo scontro, poiché, trascinata dal suo impeto, la piccola mi sarebbe certamente venuta addosso. Il mio gesto protettivo si trasformò spontaneamente in una carezza sui capelli neri e lisci di quella vivace creatura che non doveva avere più di 8 anni. Lei alzò gli occhi scuri e innocenti verso di me, sorridendo stupita, poi, rivolgendosi alla Grande Sorella:
- Che buffa questa nonna con i capelli sulla bocca come le scimmie! – disse, riferendosi alla mia barba, attributo maschile assai comune ma che evidentemente vedeva per la prima volta. Non capivo però perché mi chiamasse “nonna”.
- Silka, questa è una scimmia molto cattiva capitata qui per caso, ma stava per andarsene – Intervenne il mio severo giudice, ora inspiegabilmente intenerito e aggiunse:
- È pericoloso per te rimanere qui; torna a giocare nella tua capanna!
- Non andare via, nonna-scimmia! – implorò con irresistibile simpatia la mia piccola salvatrice - Rimani a giocare con me! -
La piccola doveva avere molto ascendente sulla Sorella anziana: gli occhi di questa, prima gelidi e spietati, ora sembravano aver recuperato una luce di umanità e la voce si era inaspettatamente ammorbidita, rivelando un tono di trattenuto divertimento. Per salvarmi, puntai tutto sul suo evidente affetto per la bambina:
- Se la Grande Sorella me lo concede – dissi rivolto a Silka – costruiremo insieme un bellissimo aquilone e poi andremo sulla mia barca e ti insegnerò a pescare.
- Sì,sì pescare, che bello. Ma cos’è “aquilone”? – chiese ingenuamente con le luminose sue perle nere sfavillanti di curiosità.
- È una piccola vela colorata che faremo volare in cielo.
Avevo conquistato la bambina, ma commosso anche la Grande Sorella, che osservò:
- Straniero, tu non sei come le altre bestie-uomo. Qual è il tuo nome?
- Gulliver, Lemuel Gulliver, medico di bordo sulle navi di sua Maestà Britannica.
- Gulliver, potrai rimanere qui in pace in una capanna che ti procureremo. Alcune delle mie guardie saranno a tua disposizione e ti proteggeranno da eventuali atti violenti di alcune nostre sorelle più esagitate.
- Oh Grande Sorella, ti ringrazio! – dissi sollevato e aggiunsi: – Sono un uomo pacifico; perché mai il vostro popolo dovrebbe farmi del male?
- Perché i tuoi simili sono malvagi e hanno procurato gravi sciagure alle nostre antenate in passato. Ma di questo parleremo domani, se vorrai. Ho l’alto onore di amministrare la giustizia e sovrintendere ad altri compiti istituzionali per il bene della città. Ora non posso concedermi distrazioni. – Mi congedai con un grande inchino lasciandomi condurre dalla scorta al mio rustico alloggio: una capanna di legno con un giaciglio, un lume e poche suppellettili. Ero troppo stanco per raccogliere le idee o anche solo guardarmi d’attorno. La settimana passata quasi insonne sulla barca e le emozioni di quel primo giorno presso la misteriosa comunità di cui ero ospite, mi avevano molto affaticato. Mi stesi sul letto e dormii come un sasso per parecchie ore.
L’indomani fui convocato dalla Grande Sorella che aveva predisposto per me una specie di portantina con la forma di un grosso baule in vimini. Fui invitato ad entrare in quella che aveva tutto l’aspetto di una gabbia per le bestie feroci. Due pali sorreggevano il voluminoso contenitore, trasportato a spalla da quattro robuste giovani. La portantina era completamente chiusa sui lati, così non potei osservare gli abitanti del villaggio durante il tragitto, ma nemmeno loro potevano distinguere il pericoloso animale barbuto racchiuso nella cesta.
Il sole era già alto. Mi ricordai con nostalgia che più o meno a quell’ora, nella mia casa di campagna ero solito sedermi a tavola per il pranzo. Per fortuna, anche presso quel popolo vi era la medesima usanza. Galanta, questo era il nome della Grande Sorella come appresi in seguito, aveva fatto preparare dei cibi che mangiai con gusto. Lei mi fece compagnia ma assaggiando solo poche vivande, con frugalità. Vi erano ciotole contenenti frutta e verdura, pannocchie di mais abbrustolito, patate, pomodori, carote, frutta tropicale, banane piccole e dolcissime, ananas, agrumi e tanti altri prodotti della terra che non avevo mai visto. In un contenitore c’erano delle tortillas, focacce, probabilmente derivate dal frutto della manioca che sostituivano egregiamente il pane. Alcuni ampi vassoi ospitavano carne di tacchino e di maiale e altre vivande che potrei definire “cacciagione” in quanto – così mi informarono – comprendevano animali di palude: capibara, uccelli, rane e, purtroppo per me, abituato ai sapori della nostra civiltà, anche serpenti, pipistrelli e insetti. Naturalmente non mangiai tutto ciò che così generosamente mi veniva offerto, ma feci piccoli assaggi soddisfacendo la curiosità e il gusto non meno dell’appetito. Il pesce ovviamente era ben rappresentato su quella tavola imbandita; sia quello d’acqua dolce, sia quello di mare, o forse dovrei dire di costa, giacché la comunità di femmine evidentemente non disponeva di navi in grado di spingersi in mare aperto, ma solo di piccole imbarcazioni per la pesca in acque poco profonde, oppure – ancor più probabile – non vi erano uomini validi, e quindi marinai, in grado di avventurarsi al largo. Avrei volentieri accompagnato il mio pasto con qualche sorso di buon vino spagnolo o francese, ma le bevande che mi portarono, peraltro gradevoli e dissetanti, erano tutte a base di frutta e non alcoliche.
Quando mi fui a sufficienza saziato, come è buona usanza di ogni gentiluomo inglese degno di questo nome, essendo ospite di una signora e volendo renderle il dovuto omaggio, mi sentii in dovere di fare qualche domanda alla nobildonna di cui avevo conquistato la stima, al fine di avviare una salottiera conversazione. Invero non ero mosso unicamente da doveri di cortesia, ma da viva curiosità e legittima preoccupazione per la mia sorte in quel lontano paese. Dapprima il colloquio non mancò di appassionarmi, ma ad un certo punto le inaspettate rivelazioni della Grande Sorella, furono così sconvolgenti che di nuovo temetti per la mia incolumità.

[continua]

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