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venerdì 1 febbraio 2008

L'ultimo viaggio di Gulliver (II)

Interrogando la mia interlocutrice, ebbi conferma dell’esattezza dei miei calcoli, eseguiti quando ancora mi trovavo sul veliero che poi mi avrebbe abbandonato in mare: ero approdato sulla punta meridionale della Florida, in un luogo sperduto, circondato su tre lati dall’oceano e separato di fatto dal continente americano a causa di una vasta palude che si estendeva a nord, dove l’acqua di mare era sostituita da quella stagnante degli acquitrini.
Galanta mi raccontò che il popolo di Arkadia – così chiamavano quella fertile terra -, gente laboriosa e pacifica, viveva al riparo dalle incursioni degli Spagnoli i quali non osavano addentrarsi nelle paludi infestate dagli alligatori, né potevano sbarcare in forze sulle coste sabbiose poiché i loro pesanti galeoni rischiavano di arenarsi sui bassi fondali che attorniavano la penisola. Del resto, fra quelle intricate foreste o nei malsani acquitrini i conquistadores non avrebbero trovato l’oro, il solo motivo che li spingeva ad avventurarsi in terre sconosciute ed ostili. Così, al riparo da guerre o scontri violenti, nel più totale isolamento, i nativi svilupparono una civiltà altamente progredita che si sostentava con i prodotti dell’agricoltura, della pesca e dell’allevamento e in cui progredivano le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia e le scienze.
- Gli uomini lavoravano nei campi, allevavano il bestiame, procuravano il cibo e fabbricavano strumenti utili a rendere il lavoro più agevole e meno faticoso – disse la mia ospite, con voce profonda e velata, socchiudendo gli occhi, come per inseguire con la mente lontani ricordi.
- Le donne – continuò – si dedicavano alla cura e all’educazione dei figli, svolgevano le necessarie attività domestiche e non mancavano di istruirsi e di accrescere la loro cultura, spesso manifestando un particolare talento per le belle arti, la poesia e la musica.
La buona terra, i pascoli, il mare ricco di pesce offrivano tutto quanto era necessario per vivere. L’abbondanza di frutti, la grande disponibilità di prodotti agricoli e di bestiame, la quantità di oggetti e manufatti artigianali, molto superiore al fabbisogno, spinsero i nostri progenitori ad allacciare rapporti commerciali con le colonie spagnole al di là delle paludi. Servendosi di barche piatte e leggere, frutto dell’ingegno e della maestria dei falegnami arkadici, gli uomini avevano ristabilito vie di comunicazione e di commercio attraverso la palude. Purtroppo, insieme con il denaro e l’oro che iniziarono ad affluire in conseguenza degli scambi con le corrotte comunità del nord, si diffusero ben presto anche fra la nostra gente, l’avidità, la sete di ricchezza e i soprusi. Così i nostri avi persero per sempre la loro innocenza.
In un tono più cupo, la Grande Sorella proseguì il suo racconto:
- Alcuni uomini senza scrupoli, arricchitisi con il commercio del tabacco e di una acquavite ricavata dalla canna da zucchero, molto gradita agli Spagnoli, per incrementare i loro affari escogitarono una soluzione che ebbe conseguenze devastanti sul nostro sistema sociale. Essi pretesero che le singole proprietà e i relativi proventi, quest’ultimi spontaneamente condivisi fra le persone secondo princìpi di reciproco aiuto, di scambio, di collaborazione, di equità, fossero ben individuate e distinte; e coloro che risultavano possedere poco o nulla, i più poveri, in cambio di pochi miseri denari, per sopravvivere, erano costretti a lavorare alle dipendenze dei più abbienti, faticando come schiavi nei campi o nelle squallide costruzioni adibite ad opifici. Anche le donne, spinte dalla necessità, dovettero lasciare le loro tranquille dimore, trascurando i figli, abbandonando gli studi e le attività intellettuali, rinunciando ai propri interessi ed inclinazioni, per svolgere mansioni umilianti e ripetitive al soldo dei ricchi possidenti.
Uno dei più grossi latifondisti si era proclamato sovrano ed essendosi circondato di un potente esercito di mercenari, obbligava i suoi sudditi ad onorarlo e a servirlo, stabilendo dei pesanti tributi che essi dovevano corrispondergli sotto forma di denaro o con prestazioni d’opera, a pena della vita. Il tiranno aveva monopolizzato le uniche vie di comunicazione per i commerci attraverso le acque stagnanti. Si era accaparrato tutte le barche disponibili e, costituita una compagnia di “scafisti”, come venivano chiamati, cioè una banda di avventurieri che era incaricata di trasportare le merci sulle imbarcazioni del re, ricavava guadagni altissimi da quei traffici privi di concorrenza, e se qualcuno cercava di opporsi o di attraversare le paludi con i propri mezzi, veniva eliminato.
L’incremento di denaro attraverso i commerci e le attività illecite favorì soprattutto i più avidi e spregiudicati, i violenti e i corrotti, chi si imponeva con forza e prepotenza, mentre le persone più pacifiche e rispettose si impoverivano sempre di più, trasformandosi in una massa di servi-lavoratori in mano ai latifondisti che si erano appropriati di tutti i terreni coltivabili.
La situazione rapidamente precipitò; le forti tensioni sociali diedero luogo a lotte furibonde e cruente che culminarono nella guerra civile. Le sciagure sembravano non aver mai fine: alla guerra seguirono lunghi anni di stenti poiché più nessuno lavorava, essendo chiamato a combattere per la propria sopravvivenza. L’economia del paese subì il tracollo; gli scambi commerciali e gli affari si bloccarono; i campi, un tempo rigogliosi di frutti, di piante, di ortaggi, divennero scenario di scontri sanguinosi, battaglie, devastazioni. La popolazione maschile venne decimata dalle guerre e dalle carestie. Fu allora, quando il tiranno riprese il potere che fu imposta alle donne la condizione più umiliante: sostituire gli uomini, i braccianti, i servi della gleba nel lavoro sui campi, nelle attività logoranti e faticose. In quegli anni di feroci sopraffazioni, la violenza maschile divenne la principale causa di morte per le nostre antenate, le quali erano oggetto di stupri o dovevano soggiacere ai turpi godimenti della soldataglia.
In quel cupo periodo di decadenza, una donna straordinaria e determinata, la Grande Madre, a cui noi tutte ci inchiniamo, guidò le sorelle verso la vittoria, la riconquista della libertà e della dignità. La Grande Madre aveva partorito un’idea semplice quanto geniale che avrebbe messo fine alle nostre sofferenze: se l’imperfetto essere maschile era all’origine dei mali che affliggevano la comunità, se la bestia-uomo era causa di violenza, corruzione e soprusi, allora si rendeva necessario estirpare quella pianta infestante che impediva al popolo femminile di crescere in prosperità e in pace -.

Avevo seguito il racconto della Grande Sorella con grande partecipazione, ma non riuscivo a capire quelle sue ultime frasi, cariche di speranza ma anche di un oscuro senso di minaccia.
- Che è dunque successo ai vostri uomini? – chiesi allarmato – Sono scomparsi a causa delle malattie e delle guerre? Sono stati catturati dagli Spagnoli? – Ero convinto che qualcosa di drammatico fosse avvenuto non molto tempo prima del mio arrivo in quel luogo e che questa fosse la ragione della diffidenza e dell’ostilità con cui ero stato accolto.
- No. Portando a compimento il disegno della Grande Madre, che è nostro dovere applicare ancora oggi, le nostre progenitrici si sono liberate degli uomini di Arkadia.
- Ma come è possibile? I maschi hanno una maggiore forza fisica, come avete fatto a cacciarli via?
- Non li abbiamo cacciati ma ridotti in minoranza ed eliminati a poco a poco evitando che si riproducessero. Le nostre madri sono riuscite a controllare le nascite in modo che non ci fossero più nuove generazioni maschili in grado di sostituirsi a quelle dei padri nelle angherie e nei soprusi.
- Terribile! E con quale coraggio avete impedito a quei poveri bambini di diventare adulti?
- Oh è stato straordinariamente semplice. La Grande Madre aveva visto giusto. Vi fu un segreto accordo fra le sorelle, una santa alleanza a cui tutte aderirono. Quando nasceva una femmina, questa veniva allevata e curata amorevolmente, nel migliore dei modi ed era una festa per tutte. Se invece nasceva un maschio, la levatrice lo faceva sparire abbandonandolo nella foresta o ai margini della palude. Al padre si riferiva che il parto non era andato a buon fine o che il figlio era morto poco dopo aver visto la luce.
Mi si era gelato il sangue nelle vene, riuscii solo a dire:
- Che orribile barbarie! Che crudeltà!
- Era necessario. Dovevamo spezzare quella catena a cui l’uomo ci aveva assoggettato. Del resto, voi che abitate oltre l’oceano o nelle terre del nord non avete usato ancor maggiore ferocia nell’impadronirvi di altri popoli che vivevano pacifici, privandoli della libertà e della vita; obbligandoli a lavorare, uccidendo, violentando, deportando? E gli Spagnoli venuti da lontano per depredarci e renderci schiavi, non hanno forse portato morte e distruzione nelle terre dove conficcavano le loro insegne?
Dovetti riconoscere che aveva ragione. Spagnoli e Portoghesi erano venuti in America in cerca di oro, ricchezze, terre da conquistare, popoli da sottomettere e convertire, schiavizzando e massacrando gli indigeni. Ma anche noi Inglesi, pur accomunati dalla stessa religione cristiana che predica la tolleranza e la carità, avevamo le nostre colpe e non erano scopi pacifici quelli che ci avevano spinto a fondare nuove colonie in Asia, in Africa ed ora a rivaleggiare con gli Spagnoli nel Nuovo Continente.
Quei discorsi mi avevano bloccato la digestione, ma ormai ero preso nella spietata logica di un colloquio in cui, mio malgrado, mi sentivo chiamato in causa. Ero l’unico uomo di quella comunità: dovevo difendere la mia natura e il genere cui appartenevo.
- Come è stato possibile – domandai – sottrarre i neonati maschi all’amore spontaneo delle loro madri? È un atto contro natura!
- Ci eravamo organizzate. Quando si trattava di un parto gemellare misto, la neonata femmina assorbiva con la sua presenza tutto l’amore della mamma, compensando la perdita dell’altro figlio. Quando nasceva solo un bambino e questo veniva necessariamente eliminato secondo le regole che ci eravamo imposte, la madre trovava consolazione nella cura di bambine non sue, messe a disposizione dalla comunità che così, lentamente, si spopolava di maschi.
- Spaventoso! Come potevano non accorgersi, quei padri mancati, di quel lento sterminio di bimbi innocenti?
- Alle bestie-uomo non interessano i bambini: smaniano solo per il sesso, il denaro e gli altri vizi. Le madri che si privavano del loro figlio maschio avevano accettato anche un ulteriore sacrificio, non meno gravoso del primo: distrarre l’uomo-padrone con un’intensa attività sessuale, in modo da tenerlo occupato e impedire che si lamentasse per l’incapacità della compagna di procurargli un erede. Tutte quante noi che oggi godiamo della piena libertà su questa terra, dobbiamo ringraziare quelle coraggiose progenitrici che, soddisfacendo le disgustose voglie degli uomini, ci hanno permesso di vivere affrancate dal maschio oppressore.
Non volli fare commenti, ma ero perplesso oltre che inorridito. Come potevano verificarsi nuove nascite in una società di sole donne da cui il sesso, e quindi l’evento riproduttivo che sta alla base della vita, stando alle affermazioni della regina, era stato bandito?

[continua]

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