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Ognuno di noi ha l'obbligo morale di attenersi a un comportamento che eviti di sconfinare e di percorrere strade che siano di confine.

venerdì 8 febbraio 2008

L'ultimo viaggio di Gulliver (III)

- Galanta – le chiesi – io sono un medico e so come vanno le cose fra l’uomo e la donna secondo natura. Non ci possono essere nuove nascite, la popolazione non potrebbe crescere e neppure sopravvivere senza l’azione fecondante del maschio...
La mia interlocutrice dovette controvoglia fornirmi dei dettagli che certamente le risultavano sgradevoli. Accompagnando le sue parole con smorfie di disgusto, proseguì il racconto.
- Il problema della riproduzione si presentò alle antenate quando la comunità, che da anni aveva rinunciato al ricambio maschile, era ormai quasi priva di uomini validi: tutti i superstiti erano avanti con gli anni oppure già vecchi. Le nostre sorelle, allora, presero una drammatica decisione. Alcune donne, giovani, avvenenti e sane compirono l’estremo sacrificio congiungendosi carnalmente con gli uomini meno anziani di Arkadia, i quali, felicemente sorpresi da quel insperato godimento in una fase così avanzata della loro vita, ottusamente si lasciarono sedurre, abbandonandosi a quei tardi eccessi sessuali senza neppure interrogarsi sul motivo di tanta fortuna. Come sono stupidi gli uomini!
- Le nascite rifiorirono – proseguì – e si decise che le compagne avrebbero allevato i bambini più belli e forti, continuando a sbarazzarsi degli altri nel solito modo. Quei giovani maschi, i più robusti, fatti crescere entro gabbie o recinti nascosti nella foresta, divennero gli stalloni, i continuatori della nostra società. Alcune sorelle, con grande spirito di abnegazione, per il bene comune, ancora oggi accettano l’infamante compito di unirsi a questi esemplari da riproduzione per dare alla luce nuove sorelle e altre bestie-uomo su cui operare altre selezioni.
- E l’amore? – sbottai scandalizzato – non considerate questo sublime sentimento che rende l’uomo necessario e complementare alla donna e viceversa?
- Dell’amore carnale fra la bestia e la donna noi tutte abbiamo imparato che si può fare volentieri a meno; e non ci manca, non ne abbiamo nostalgia, né desiderio, anzi…
È una cosa disgustosa anche solo immaginare che i nostri pensieri, la nostra mente, il nostro cuore possano essere occupati e divenire ostaggio di un essere schifoso, violento, volgare, presuntuoso ed egoista come la scimmia-uomo. Noi sorelle proviamo un amore puro e incondizionato, non indotto dall’attrazione sessuale, per le nostre compagne e un profondo legame affettivo stringe fra loro figlie, nipoti e madri. La passione di due esseri di sesso opposto, se per malaugurata ipotesi dovesse mai verificarsi, sarebbe la forma d’amore più imperfetta, degenerata e umiliante che riprecipiterebbe la donna in una condizione di schiavitù, totalmente in balia dello scimmiesco essere maschile. Che la Grande Madre ci protegga da una simile, orrenda sciagura!
Per scongiurare tale disgrazia – concluse la regina con un lampo di violenta gravità negli occhi, lo stesso sguardo di quando ci eravamo incontrati la prima volta – ho dato personalmente ordine che le guardiane dei recinti con le bestie da riproduzione vengano cambiate ogni settimana.
Ero rimasto senza parole. Mi sentivo anche inquieto e vagamente in colpa per tutti i mali commessi dal genere cui appartenevo, come se tutto fosse avvenuto per opera mia. Quel antico odio maturato verso gli uomini, mi faceva temere una forma di vendetta nei miei riguardi.
Mi congedai dalla Sorella Regina e venni trasportato nel solito modo alla capanna assegnatami. Nei giorni successivi fui invitato diverse volte alla palafitta, dove spesso venivano a farmi visita donne arcadike di tutte le età. Soprattutto per le più giovani, che non avevano mai visto un essere umano di sesso maschile, dovevo costituire un’attrazione, come lo sono le bestie feroci dei circhi per noi occidentali. Sembrava impossibile che dietro quei tratti gentili di ragazze così ben educate e piene di vita, di madri o signore dai modi distinti ed eleganti, potessero nascondersi spietati carnefici, complici o consapevoli del crudele infanticidio, la strage degli innocenti su cui era fondata quella organizzazione sociale. Ne trassi la conclusione che presso questo popolo unicamente la persona di genere femminile aveva dignità di essere umano. Le donne ignoravano l’esistenza del maschio oppure ne avevano un lontano e sgradevole ricordo; l’uomo era assimilato ad un animale, inutile, pericoloso o molesto e potevano quindi sopprimerlo, ridurlo in schiavitù, servirsene per la riproduzione o schiacciarlo come un insetto schifoso, senza che la loro coscienza ne fosse turbata.

Trascorrevo le giornate narrando al gentile pubblico gli avvenimenti straordinari che diversi anni prima mi avevano portato alla scoperta del minuscolo popolo di Lilliput e di quello dei Giganti, del regno sull’Isola Volante e della terra dei Cavalli Intelligenti. Le incredibili avventure di cui ero stato protagonista risultavano particolarmente appassionanti per il mio uditorio che, per quanto mi era dato sapere, non aveva altre forme di svago o di divertimento. Non esistevano teatri o altri luoghi di intrattenimento in questa comunità; né vi era l’usanza di organizzare feste, serate di ballo, ricevimenti dove la gente potesse stare in allegria, cantare, danzare chiacchierare o bere un po’ di vino. Sembrava un popolo operoso, impegnato in attività manuali ed anche intellettuali, come comporre poesie o canzoni o declamare odi che celebravano la bellezza della natura e del corpo femminile, la giovinezza, la perfezione della donna, la meravigliosa esperienza della maternità, ma al fondo di tutto ciò percepivo un rigore malinconico, un’insoddisfazione trattenuta, una mancanza di entusiasmo, forse una punta di rassegnazione ad una esistenza creativa e laboriosa ma priva di slanci e turbamenti.
Anche a Silka, la mia nipotina adottiva cui dovevo la salvezza e con la quale trascorrevo molte ore inventando giochi, raccontando fiabe, costruendo piccoli oggetti di legno che la affascinavano come meravigliosi giocattoli, sembrava mancasse quella genuina e spensierata leggerezza che contraddistingue le bambine della sua età.
Anche le sue coetanee apparivano incapaci di divertirsi, di ridere con naturalezza oppure, al contrario, quando si appassionavano ad un gioco che avevo escogitato, ero costretto a prolungarlo all’infinito poiché avrebbero voluto che l’insolita esperienza di quella sensazione piacevole non dovesse mai terminare.
Il mio involontario ruolo di nonno e di intrattenitore di corte, esaurito il pathos iniziale, non aveva più il sapore della novità. Le giornate si susseguivano, tutte uguali, ed anch’io, superato il timore di essere assassinato, mi stavo lentamente lasciando andare – per quel poco di anni che il mio destino poteva ancora concedermi – ad una pericolosa indolenza.
Una sera, racchiuso nel mio insolito mezzo di trasporto, venivo ricondotto alla mia capanna, quando all’improvviso sentii la portantina ondeggiare pericolosamente prima di essere appoggiata a terra in tutta fretta. Non potevo vedere quello che succedeva, ma sentivo i rumori di una colluttazione, grida, colpi secchi, passi concitati. Poi la cesta venne risollevata e portata via velocemente, ma in tutt’altra direzione rispetto alla mia casupola. Alcuni minuti di corsa poi venni depositato su quella che doveva essere una piroga o una zattera. Avevo il cuore in tumulto. Temevo fosse arrivata la mia ultima ora. Forse un manipolo di scalmanate che aveva in odio l’uomo, come Galanta mi aveva preavvisato nel nostro primo colloquio, si era impadronito della cesta allo scopo di farmi annegare nella palude o di darmi in pasto ai caimani. Invece, dopo una tormentata navigazione, la gabbia venne issata su un pontile, io fui prelevato e condotto in una baracca di legno eretta su un isolotto che si trovava in un’area remota della palude.
Una giovane donna mi attendeva: lo sguardo fiero e sorridente, il biondo cespuglio di capelli percorso da tante piccole onde come il mare in prossimità della riva; la carnagione color ambra; le belle forme impudicamente svelate da un vestito leggero e succinto che certamente avrebbe fatto gridare allo scandalo le gentildonne inglesi ma che in questi luoghi, dove la temperatura è assai elevata e la seminudità condivisa da tutti senza malizia, era l’abbigliamento più adeguato a mostrare la bellezza di colei che lo indossava e la sua disinvolta natura.
- Gulliver, hai fatto buon viaggio? – disse senza tanti convenevoli – Spero che le mie guardie non ti abbiano sballottato troppo nel condurti qui.
- Oh sciocchezze! I viaggi per mare mi hanno abituato a ben altro: onde impetuose, burrasche, tempeste. Però non capisco il motivo di tanta urgenza. Eseguivate ordini della Grande Sorella?
- No, io non obbedisco a nessun ordine e tanto meno a quelli della vecchiaccia. È una mia iniziativa. Mi hanno parlato di te. So che sei un tipo divertente, racconti delle belle storie e noi qui ci annoiamo a morte… Dimenticavo le presentazioni. Il mio nome è Jolanta. Io e le mie compagne ci siamo nascoste nelle paludi perché non sopportiamo il regime di quella pazza.
- Galanta?
- Si. Già mia madre si era rifugiata qui, diverso tempo fa, per sfuggire alle imposizioni di quella fissata che parlava solo di doveri, sacrifici, impegno, lavoro, obbedienza…Chiedeva a tutte di collaborare, di rimanere unite, di lottare per realizzare il progetto della Grande Madre.
- Galanta me ne ha parlato. È una cosa orribile!... Quei poveri bambini sacrificati per impedire che diventassero uomini...
- È vero. E che cosa abbiamo ottenuto alla fine? La libertà? La sicurezza? Una vita più consapevole e dignitosa? Chi lo sa?... Di certo non abbiamo più svaghi e se avessimo dato retta a quella strega, dovremmo faticare tutto il giorno ed essere sempre pronte a renderci utili alle altre sorelle.
Io non so come si stava quando c’erano gli uomini, ma mia nonna mi aveva raccontato cose bellissime della sua gioventù. Era una ragazza molto attraente e in gamba; dicono che le assomigliassi moltissimo. Faceva la cortigiana. Si godeva la vita. Aveva un mucchio di amici maschi che le compravano splendidi vestiti, le regalavano monili d’oro, gioielli, brillanti; facevano a gara per ospitarla nelle loro ville signorili o a palazzo. La portavano a teatro, la invitavano alle feste, ai balli di corte, ai più sfarzosi ricevimenti. E tutto questo in cambio di un bel sorriso, qualche sguardo languido e un po’ di compagnia…
- Beata ingenuità! – pensai, ma non volli turbare quel suo innocente ricordo della nonna. Tuttavia devo riconoscere che la vita di una cortigiana, senza entrare in questioni morali, può risultare assai piacevole e apportare indubbi vantaggi a colei che la conduce.
- Anch’io vorrei fare la cortigiana. Sarebbe bello e divertente trascorrere le giornate a scegliere gli abiti più eleganti per essere ammirata dagli uomini. E profumarmi e pettinarmi e aver cura del mio corpo; e vivere in un palazzo sontuoso con ricchi tendaggi, tappeti, mobili, con un grande giardino pieno di fiori colorati e tanti domestici al mio servizio… Ma tutto questo, per colpa di quella strega, non è più possibile. Da quando non ci sono più i maschi a lavorare nei campi, a costruire case, ville e palazzi, a inventare e fabbricare tanti ingegnosi oggetti di legno e metallo, svolgendo anche con impegno le necessarie attività manuali, le compagne che si sono fatte fregare dalla Sorella Regina sono costrette a far da sé, a sobbarcarsi tutti i lavori, anche quelli pesanti che prima lasciavano agli uomini e ai servi. Sudano, si sformano e abbrutiscono per riuscire a campare con quello che la terra, faticosamente, concede. Rischiano la vita per procurarsi il cibo con la caccia o la pesca oppure si adattano a custodire e allevare gli animali puzzolenti di cui si nutrono. Siamo tutte obbligate a tirar su capanne o catapecchie di legno, a coprirci di stracci e ad arrangiarci alla meglio, perché non esistono più muratori e carpentieri, sarti e artigiani…
- Ma perché – la interruppi – qui c’erano case in muratura?
- Certo. Mia nonna e mia madre mi hanno raccontato tutto. Gli uomini hanno tanti difetti, ma quando ci si mettono sono proprio bravi. Con la sabbia e altri ingredienti che sapevano miscelare, tenevano insieme i mattoni ricavati dall’argilla; oppure tagliavano e squadravano le pietre che compravano dagli Spagnoli, così come il ferro e gli altri metalli che facevano arrivare attraverso le paludi.
Erano state costruite solide abitazioni e palazzi. I villaggi crescevano e si erano trasformati in popolose città con piazze, monumenti, strade e negozi. Comode vie di comunicazione avevano sostituito i polverosi sentieri di terra battuta. Ma ora è tutto in rovina: nessuna compagna è in grado di fare quei lavori e neppure di riparare i muri, i tetti, le porte e le finestre: così ci siamo ridotte a vivere in squallide capanne.
Gli ingegneri di Arkadia aveva inventato tante altre cose meravigliose e utili che ora giacciono abbandonate poiché non si riesce a fabbricarne di nuove o a farle funzionare. Nelle vaste pianure dove si coltivavano mais, canna da zucchero, pomodori, patate, cacao e cotone, gli aratri trainati dai buoi erano stati sostituiti da macchine semoventi che emettevano fumo e, utilizzando un ingegnoso meccanismo interno alimentato da un alcool derivato dalla patata e dalla canna, facevano risparmiare una grande fatica ai contadini e agli animali. Le strade che solcavano la foresta erano state realizzate con il dispiego di numerosi operai, ma ben presto vennero percorse da carri che non avevano più bisogno di essere tirati dai cavalli poiché ad essi era stato applicato un congegno meccanico interno, simile a quello degli aratri semoventi, costituito da ruote dentate, ingranaggi e catene che si muovevano da sole con l’energia fornita dall’alcool.
C’erano filande dove le donne producevano tessuti pregiati che poi i nostri sarti trasformavano in splendidi abiti, ma ora dobbiamo contentarci di ruvide tele e rozzi vestiti perché i grandi telai si sono fermati per sempre, sono ridotti a ingombranti rottami: gli ingegneri che possedevano il segreto del loro funzionamento sono tutti scomparsi e del resto neppure i sarti esistono più.
Gli uomini avevano anche costruito una lanterna magica che si illuminava su un lato, dove c’era un vetro dietro il quale si muovevano delle figure, si ascoltavano suoni e parole, come essere a teatro. Sembrava che dentro la scatola luminosa si muovessero minuscoli attori, ci fossero paesaggi, scene, fondali miniaturizzati: un mondo intero racchiuso in quella scatola magica.
Erano riusciti a imprigionare e dominare la tremenda potenza dei fulmini, distribuendola attraverso sottili fili metallici ricoperti di uno strano materiale che sembrava carta, ma molto più liscio e duttile. E questa energia circolava entro ampolle di vetro che si illuminavano come le nostre lampade a petrolio, rischiarando la notte più di mille candele. Ancora, con gli stessi fili riuscivano a portare la voce a grandissima distanza: due persone, tenendo vicino alla bocca una specie di corno da cui usciva una di questi cordicelle, potevano parlare fra loro, essendo ciascuna a casa propria, come si fossero trovate una di fronte all’altra anziché in due punti lontanissimi della città.
Lo stesso tipo di filo, uscendo da un grosso baule e infilandosi nei muri delle case, creava incredibilmente un bel freddo dentro il contenitore, cosicché i cibi e le bevande si potevano conservare per tanti giorni e la frutta era fresca e saporita come appena colta dall’albero.
Che cose straordinarie avevano inventato gli uomini!...E noi abbiamo perso tutto questo per colpa di quella tiranna.
- Jolanta, io conosco un modo per riavere indietro tutto ciò che avete perduto. – dissi con un sorriso volutamente enigmatico.
- Davvero riusciresti a procurarci ciò che rendeva felici le nostre antenate?
- Si, ma ad una condizione.
- Quale? Dimmi ciò che desideri e sarà tuo.
- Oh si tratta di una cosa modestissima, ma ora sono troppo stanco per parlartene. Devi avere pazienza fino a domani. Ho necessità di dormire.
- Come vuoi, Gulliver. Le mie compagne veglieranno il tuo sonno e che la notte ti porti consiglio.

[continua]

La conclusione del racconto, per motivi di suspense, sarà pubblicata al mio ritorno da un viaggio in cui cercherò di recuperare le energie spese per scrivere il racconto medesimo.
Vi do quindi appuntamento per le idi di marzo, quando l’attesa sarà spasmodica, sperando che nel frattempo non abbiate meditato di accoltellarmi…



Il SalaDyno

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