Don Giovanni in Emilia (II)
La sera del convegno mi recai nel luogo stabilito; spensi le luci e il motore dell’auto. Il cuore era in tumulto; ero agitato come un liceale al suo primo appuntamento galante o piuttosto, come un ladro in procinto di esordire nel mondo del crimine. L’amor proprio non mi avrebbe concesso altre occasioni per dimostrare a me stesso che ero un uomo e non un caporale: sapevo che, se mi fosse andata buca, avrei continuato a tormentarmi e autoflagellarmi per un bel po’ di tempo. Cercai razionalmente di controllare l’affanno fisico e psicologico di cui ero in balia. Qual era il modo migliore per rivelare le mie non platoniche intenzioni alla sfuggente infermiera? Una dichiarazione in piena regola era assolutamente improponibile, sia per l’età dei due interessati, non propriamente adolescenziale, sia per la mancata frequentazione preliminare dei medesimi. Decisi che avrei tentato di rubarle un bacio non appena fosse entrata in macchina. Se avessi indugiato rinviando ad un momento più propizio, la serata si sarebbe trascinata in uno snervante minuetto di leziosaggini e cortesie, in un ballo da cicisbei che al massimo poteva concludersi con il classico bacino della buona notte sulla guancia.
Quando la mia preda entrò nell’auto, scusandosi per il ritardo, appressai il mio viso al suo come per salutarla con un innocente bacio, ma con maldestra mossa da principiante cercai al contempo di cingerle le spalle per trarla verso di me e unire le mie labbra alle sue… ma si sottrasse con una certa fermezza, guardandomi con un misto di severità e meraviglia, mentre faceva “No” con il dito, come una maestra quando bonariamente rimprovera le monellerie di un suo scolaretto.
Quel goffo tentativo di approccio non mi aveva procurato un’amante, ma almeno aveva chiarito qual era la mia posizione: mi sentivo alleggerito, come dopo un esame importante, anche se ero stato rimandato a settembre... Anche lei, evidentemente, pur respingendomi, non aveva escluso una continuazione del rapporto e forse pregava in cuor suo che avessi pazienza e che riprovassi con più tatto. Era il momento delle confidenze e delle confessioni, l’ora della verità e dei chiarimenti, ma l’imbarazzo reciproco ci fece rimandare il tutto, con tacito accordo, ad altra occasione o al dopo cena, dato che eravamo in forte ritardo rispetto all’ora fissata con la prenotazione.
La sede del Jazz Club di Ferrara, dove era previsto il concerto, è ricavata da un antico torrione che fa parte della cinta muraria eretta all’epoca degli Estensi.
La sera del convegno mi recai nel luogo stabilito; spensi le luci e il motore dell’auto. Il cuore era in tumulto; ero agitato come un liceale al suo primo appuntamento galante o piuttosto, come un ladro in procinto di esordire nel mondo del crimine. L’amor proprio non mi avrebbe concesso altre occasioni per dimostrare a me stesso che ero un uomo e non un caporale: sapevo che, se mi fosse andata buca, avrei continuato a tormentarmi e autoflagellarmi per un bel po’ di tempo. Cercai razionalmente di controllare l’affanno fisico e psicologico di cui ero in balia. Qual era il modo migliore per rivelare le mie non platoniche intenzioni alla sfuggente infermiera? Una dichiarazione in piena regola era assolutamente improponibile, sia per l’età dei due interessati, non propriamente adolescenziale, sia per la mancata frequentazione preliminare dei medesimi. Decisi che avrei tentato di rubarle un bacio non appena fosse entrata in macchina. Se avessi indugiato rinviando ad un momento più propizio, la serata si sarebbe trascinata in uno snervante minuetto di leziosaggini e cortesie, in un ballo da cicisbei che al massimo poteva concludersi con il classico bacino della buona notte sulla guancia.
Quando la mia preda entrò nell’auto, scusandosi per il ritardo, appressai il mio viso al suo come per salutarla con un innocente bacio, ma con maldestra mossa da principiante cercai al contempo di cingerle le spalle per trarla verso di me e unire le mie labbra alle sue… ma si sottrasse con una certa fermezza, guardandomi con un misto di severità e meraviglia, mentre faceva “No” con il dito, come una maestra quando bonariamente rimprovera le monellerie di un suo scolaretto.
Quel goffo tentativo di approccio non mi aveva procurato un’amante, ma almeno aveva chiarito qual era la mia posizione: mi sentivo alleggerito, come dopo un esame importante, anche se ero stato rimandato a settembre... Anche lei, evidentemente, pur respingendomi, non aveva escluso una continuazione del rapporto e forse pregava in cuor suo che avessi pazienza e che riprovassi con più tatto. Era il momento delle confidenze e delle confessioni, l’ora della verità e dei chiarimenti, ma l’imbarazzo reciproco ci fece rimandare il tutto, con tacito accordo, ad altra occasione o al dopo cena, dato che eravamo in forte ritardo rispetto all’ora fissata con la prenotazione.
La sede del Jazz Club di Ferrara, dove era previsto il concerto, è ricavata da un antico torrione che fa parte della cinta muraria eretta all’epoca degli Estensi.
Al piano terra si trova il ristorante; al piano superiore c’è lo spazio per le esibizioni, con il palco, le sedie, i tavolini e un piccolo bar.
Arrivammo quasi in contemporanea con l’inizio del concerto. Non avevo mai cenato in quel posto e purtroppo solo dopo essermi seduto mi accorsi di aver scelto male la mia posizione a tavola. Infatti, giusto alle mie spalle, un maxi schermo proiettava le immagini della performance in corso al piano di sopra, mentre le casse diffondevano la musica.
Arrivammo quasi in contemporanea con l’inizio del concerto. Non avevo mai cenato in quel posto e purtroppo solo dopo essermi seduto mi accorsi di aver scelto male la mia posizione a tavola. Infatti, giusto alle mie spalle, un maxi schermo proiettava le immagini della performance in corso al piano di sopra, mentre le casse diffondevano la musica.
Quella infelice collocazione era l’ennesima piccola beffa del destino poiché la mia amica, rivolta verso lo schermo situato alle mie spalle, non era affatto interessata alla musica (come era prevedibile, del resto, dato che non aveva la minima cognizione di jazz e ignorava anche chi fosse A. Piazzolla), mentre io, essendo la mia carriera di tombeur de femmes troncata sul nascere, avrei gradito almeno stemperare i dispiaceri nella musica. Riconobbi in quella disposizione il paradigma della mia vita: costretto dalle circostanze a voltare tristemente le spalle ai piaceri e alle passioni.
Silvana, né intimorita né zittita dal flusso della musica, che per lei era sicuramente assimilabile a un sottofondo per la conversazione, durante la cena, ebbe modo di raccontarmi la seguente incredibile storia.
Si era fidanzata a 16 anni con il suo primo, bellissimo ragazzo di cui era follemente innamorata. Il loro rapporto durò circa tre anni, ma per tutto quel periodo non era mai riuscita a vincere la sua grandissima paura nei confronti del sesso, a superare il disagio paralizzante che la prendeva quando era in intimità con il suo giovane principe cui voleva un bene dell’anima. E neppure riusciva a lasciarsi andare, ad esprimere con gesti affettuosi, carezze, baci o altre manifestazioni di tenerezza, tutto il suo grande amore. Soffriva terribilmente per questa penosa condizione di emotività prigioniera e sessualità repressa a cui però non sapeva porre rimedio, forse illudendosi che la purezza tutta interiore della sua passione avrebbe potuto compensare la sua frigidità, l’assenza di coinvolgimento fisico. La timida verginella non poteva che apparire distante, disinteressata, priva di slanci affettivi e calore umano agli occhi del fidanzato il quale, dopo una relazione, immagino, di puro amore platonico, si decise a lasciarla. Silvana ne ebbe il cuore spezzato.
Poco dopo quel triste evento, entrò in scena colui che sarebbe diventato il compagno della sua vita; sebbene non provasse nei suoi riguardi un sentimento neppure paragonabile alla passione che aveva conosciuto con il precedente ragazzo, o forse non provando neppure vero amore, ma qualcosa di simile ad un obbligo di riconoscenza, più per soddisfare le richieste di lui che la propria inclinazione, si sposò. Finalmente ebbe il suo primo rapporto sessuale, vissuto prevedibilmente con un certo fastidio. Come nelle frasi ricamate sulle lenzuola del talamo coniugale all’epoca della nostra civiltà contadina – cioè: “Non lo fo per piacer mio ma per dare figli a Dio” -, Silvana si assoggettò senza troppo entusiasmo ai suoi doveri di giovane sposa, a quella attività sessuale per cui non si sentiva tagliata e che accettava solo per compiacenza al marito, soffocando le proprie paure e il senso di repulsione. Rimase subito incinta del suo (unico?) figlio che ora ha 30 anni. Ma la sfortuna si era accanita sulla giovane madre che aveva conosciuto l’amore carnale nobilitato dall’evento procreativo, ma non aveva mai sperimentato il piacere.
Il parto un po’ difficoltoso le aveva prodotto una lacerazione della vagina: inconveniente spiacevole ma non irrisolvibile anche per la scienza medica di allora. Solo che Silvana era scarsamente motivata a recuperare la normale elasticità dell’organo genitale poiché, avendo come unico riferimento la sua breve e sfortunata esperienza, il sesso le era apparso tutt’altro che divertente o appagante, quindi non aveva alcuno stimolo o desiderio di risolvere quel problema fisico (anzi, ritengo che la sua presunta “menomazione” fosse ben presto diventata una scusa, un comodo paravento dietro cui nascondere il disinteresse per i congiungimenti carnali).
Così passarono gli anni e i decenni. Immagino cosa può essere successo in quella casa; lei che si concede svogliatamente e concentra tutto il suo amore sul figlio: nobile ed elevato sentimento, l’amore materno, che nella scala dei valori della nostra società gode sempre di un “surplus”, di un “valore aggiunto” – attribuitole dalla Chiesa, dai conformisti, da tutto il sistema sociale – rispetto alla passione erotica. E posso capire la frustrazione del marito che, in obbedienza alla severa legge monogamica, doveva sfogare le sue voglie con una femmina non propriamente entusiasta del sesso e che offriva al partner l’eccitante sensazione di far l’amore con qualcosa di simile ad una bambola gonfiabile o ad una sportina di plastica. Inevitabilmente, il coniuge cadde in depressione, cercò soddisfazione con altre donne (ma la cosa non era facile allora, come non lo è adesso, per i riprovevoli adulteri) ed ebbero inizio i tentativi di suicidio. La modalità era più o meno la stessa: lui si faceva un’overdose di sonniferi e cadeva in un sonno profondo che forse lo avrebbe portato alla morte se lei, puntualmente, non fosse rincasata, non avesse praticato i primi soccorsi, essendo un’infermiera, e, in definitiva, non lo avesse salvato attivando il pronto intervento. Il rituale era ormai collaudato e si ripeté per 4 o 5 volte. Evidentemente lo sfortunato consorte, sebbene disperato, non era troppo convinto di passare a miglior vita e segnalava, in quella maniera piuttosto drastica e rischiosa, la sua condizione di sofferenza.
Tutti questi accadimenti avevano indotto Silvana a cercare di “recuperare” il suo uomo rendendosi più desiderabile, ma era troppo tardi: il marito, fra un tentativo di suicidio e l’altro, aveva probabilmente risolto il problema della sua sessualità mortificata: si era trovato un’altra donna. Così, in tempi ormai vicini a quelli attuali, la protagonista della storia decise di affidarsi alla scienza medica per tentare un rattoppo del suo disusato organo del piacere. Ma ancora una volta la sfortuna si accanì sulla povera Silvana.
Il primo intervento cui si sottopose non fu risolutivo. Cadde poi nelle mani di un presunto specialista di Padova che tuttavia si dimostrò un incapace, peggiorando la situazione. Finalmente un’ultima, definitiva operazione – la 3ª o la 4ª della serie – le aveva procurato, come lei stessa si espresse, “una patatina tutta nuova”, cosicché, all’alba dei suoi primi 50 anni, era praticamente “ritornata vergine”. Tuttavia la sua vicenda coniugale era giunta all’epilogo, con la separazione, avvenuta poco prima del nostro incontro, e il trasferimento del marito in casa dell’amante.
[segue nel post qui sotto]
Silvana, né intimorita né zittita dal flusso della musica, che per lei era sicuramente assimilabile a un sottofondo per la conversazione, durante la cena, ebbe modo di raccontarmi la seguente incredibile storia.
Si era fidanzata a 16 anni con il suo primo, bellissimo ragazzo di cui era follemente innamorata. Il loro rapporto durò circa tre anni, ma per tutto quel periodo non era mai riuscita a vincere la sua grandissima paura nei confronti del sesso, a superare il disagio paralizzante che la prendeva quando era in intimità con il suo giovane principe cui voleva un bene dell’anima. E neppure riusciva a lasciarsi andare, ad esprimere con gesti affettuosi, carezze, baci o altre manifestazioni di tenerezza, tutto il suo grande amore. Soffriva terribilmente per questa penosa condizione di emotività prigioniera e sessualità repressa a cui però non sapeva porre rimedio, forse illudendosi che la purezza tutta interiore della sua passione avrebbe potuto compensare la sua frigidità, l’assenza di coinvolgimento fisico. La timida verginella non poteva che apparire distante, disinteressata, priva di slanci affettivi e calore umano agli occhi del fidanzato il quale, dopo una relazione, immagino, di puro amore platonico, si decise a lasciarla. Silvana ne ebbe il cuore spezzato.
Poco dopo quel triste evento, entrò in scena colui che sarebbe diventato il compagno della sua vita; sebbene non provasse nei suoi riguardi un sentimento neppure paragonabile alla passione che aveva conosciuto con il precedente ragazzo, o forse non provando neppure vero amore, ma qualcosa di simile ad un obbligo di riconoscenza, più per soddisfare le richieste di lui che la propria inclinazione, si sposò. Finalmente ebbe il suo primo rapporto sessuale, vissuto prevedibilmente con un certo fastidio. Come nelle frasi ricamate sulle lenzuola del talamo coniugale all’epoca della nostra civiltà contadina – cioè: “Non lo fo per piacer mio ma per dare figli a Dio” -, Silvana si assoggettò senza troppo entusiasmo ai suoi doveri di giovane sposa, a quella attività sessuale per cui non si sentiva tagliata e che accettava solo per compiacenza al marito, soffocando le proprie paure e il senso di repulsione. Rimase subito incinta del suo (unico?) figlio che ora ha 30 anni. Ma la sfortuna si era accanita sulla giovane madre che aveva conosciuto l’amore carnale nobilitato dall’evento procreativo, ma non aveva mai sperimentato il piacere.
Il parto un po’ difficoltoso le aveva prodotto una lacerazione della vagina: inconveniente spiacevole ma non irrisolvibile anche per la scienza medica di allora. Solo che Silvana era scarsamente motivata a recuperare la normale elasticità dell’organo genitale poiché, avendo come unico riferimento la sua breve e sfortunata esperienza, il sesso le era apparso tutt’altro che divertente o appagante, quindi non aveva alcuno stimolo o desiderio di risolvere quel problema fisico (anzi, ritengo che la sua presunta “menomazione” fosse ben presto diventata una scusa, un comodo paravento dietro cui nascondere il disinteresse per i congiungimenti carnali).
Così passarono gli anni e i decenni. Immagino cosa può essere successo in quella casa; lei che si concede svogliatamente e concentra tutto il suo amore sul figlio: nobile ed elevato sentimento, l’amore materno, che nella scala dei valori della nostra società gode sempre di un “surplus”, di un “valore aggiunto” – attribuitole dalla Chiesa, dai conformisti, da tutto il sistema sociale – rispetto alla passione erotica. E posso capire la frustrazione del marito che, in obbedienza alla severa legge monogamica, doveva sfogare le sue voglie con una femmina non propriamente entusiasta del sesso e che offriva al partner l’eccitante sensazione di far l’amore con qualcosa di simile ad una bambola gonfiabile o ad una sportina di plastica. Inevitabilmente, il coniuge cadde in depressione, cercò soddisfazione con altre donne (ma la cosa non era facile allora, come non lo è adesso, per i riprovevoli adulteri) ed ebbero inizio i tentativi di suicidio. La modalità era più o meno la stessa: lui si faceva un’overdose di sonniferi e cadeva in un sonno profondo che forse lo avrebbe portato alla morte se lei, puntualmente, non fosse rincasata, non avesse praticato i primi soccorsi, essendo un’infermiera, e, in definitiva, non lo avesse salvato attivando il pronto intervento. Il rituale era ormai collaudato e si ripeté per 4 o 5 volte. Evidentemente lo sfortunato consorte, sebbene disperato, non era troppo convinto di passare a miglior vita e segnalava, in quella maniera piuttosto drastica e rischiosa, la sua condizione di sofferenza.
Tutti questi accadimenti avevano indotto Silvana a cercare di “recuperare” il suo uomo rendendosi più desiderabile, ma era troppo tardi: il marito, fra un tentativo di suicidio e l’altro, aveva probabilmente risolto il problema della sua sessualità mortificata: si era trovato un’altra donna. Così, in tempi ormai vicini a quelli attuali, la protagonista della storia decise di affidarsi alla scienza medica per tentare un rattoppo del suo disusato organo del piacere. Ma ancora una volta la sfortuna si accanì sulla povera Silvana.
Il primo intervento cui si sottopose non fu risolutivo. Cadde poi nelle mani di un presunto specialista di Padova che tuttavia si dimostrò un incapace, peggiorando la situazione. Finalmente un’ultima, definitiva operazione – la 3ª o la 4ª della serie – le aveva procurato, come lei stessa si espresse, “una patatina tutta nuova”, cosicché, all’alba dei suoi primi 50 anni, era praticamente “ritornata vergine”. Tuttavia la sua vicenda coniugale era giunta all’epilogo, con la separazione, avvenuta poco prima del nostro incontro, e il trasferimento del marito in casa dell’amante.
[segue nel post qui sotto]
Nessun commento:
Posta un commento