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martedì 20 novembre 2007

Raccontare la ferraresità - Don Giovanni in Emilia (I)

Don Giovanni in Emilia: una storia ferrarese
(Parte I)

Sono un essere spregevole. Antiromantico, amorale, cinico, epicureo; diffido di qualunque religione, antepongo i piaceri della carne a quelli dello spirito; fra l’amore senza sesso e il sesso senza amore prediligo di gran lunga quest’ultimo. Non privo di intelligenza, cultura, fascino, perseguo la filosofia del carpe diem: meglio un’amante oggi che una moglie domani. Insomma, avrei tutte le carte in regola e le caratteristiche per potermi definire un inguaribile libertino e irresistibile seduttore se non fosse per un particolare di non trascurabile importanza; mi manca proprio ciò che fa di un uomo un maschio: mi mancano le femmine. E per giunta, sono sposato. Nessuna donna mi ha mai voluto come compagno di giochi, né ha mai accettato di essere mia complice per trasgredire; nessuna si è mai accesa di desiderio o è caduta in tentazione per causa mia, ad esclusione della mia legittima compagna, ma lei non entra nel computo delle amanti e poi si tratta di una fiamma di tanti anni fa... Nulla di nulla da allora e anche prima di allora: sono il più casto dei libertini, il più fedele degli adulteri e il mio curriculum erotico farebbe invidia ad un monaco di clausura.
È molto difficile modificare questa insolita e imbarazzante condizione di probo peccatore che comporta solo gli svantaggi di una vita sregolata (la pubblica esecrazione, l’ostracismo della Chiesa, dei benpensanti e di tutto l’universo femminino) senza averne i godimenti, soprattutto qui a Ferrara dove più è severa e ipocritamente applicata la dura legge della fedeltà coniugale.
Alle volte, quando sento più intollerante il peso di questo ingiusto, incolpevole, interminabile letargo erotico e passionale, e tento di recuperare almeno un briciolo della mia umiliata sessualità, mi impongo un amaro rimedio che poi si rivela sempre peggiore del male: vado in una sala da ballo per “tardone”, l’unico ambiente dove un dinosauro come me, ormai avviato verso l’estinzione, può illudersi di “cuccare”.
In una di queste rare occasioni, dopo un’ora di frustrante, invidiosa contemplazione di coppie ormai attempate che sembrano spassarsela dimenandosi al ritmo di balli tradizionali e “anni ‘60”; dopo aver girovagato per la sala gonfiando il petto, tirando in dentro la pancia, come ad una parata militare, con sguardo da improbabile sparviero in cerca di prede, tutte peraltro assai poco appetibili e ancor meno disponibili; deciso a sperimentare la mia dialettica sul banco di prova più duro e ostile che io conosca, cioè quello del vacuo, artificioso e competitivo mondo delle balere, intravedo nella penombra una figura femminile apparentemente priva di cavaliere o di dame da compagnia che potrebbe fare al caso mio. L’incauta sembra non aver preso le solite precauzioni che le sue consimili usano adottare per difendersi da avventurieri e molestatori da sala, ovvero non si è arroccata nel punto meno accessibile del locale, dietro trincee di tavolini e divani, né si è protetta dagli eventuali assalti dei malintenzionati con il vecchio sistema di raccogliere attorno a sé un manipolo di variopinte guardie svizzere di sesso femminile, cui spetta il compito di racchiudere, entro la rassicurante fortezza del loro corpo e della loro mole, l’amica meno racchia del gruppo.
Mi avvicino senza curarmi troppo della sua avvenenza: a scopo di allenamento, per fare esperienza di tacchinaggio va più che bene. Le chiedo se si è seduta per riposare oppure se è in attesa di ritornare in pista. Mi risponde con gentilezza, senza le solite pose delle frequentatrici di balera, dicendo che non ha intenzione di ballare. Era proprio ciò che volevo: se si balla, non si parla e non si cucca! Chiedo cortesemente di potermi sedere e iniziamo a chiacchierare.
E’ una bella signora dall’aspetto florido, capelli biondo chiaro, il viso, leggermente truccato, ha una certa bellezza che si intuisce “passata ma non ancora trascorsa” come direbbe il Manzoni. Il suo punto di forza, ora che la posso osservare da vicino, è il décolleté: un’accogliente insenatura dove sarebbe dolce naufragare. Ha un po’ meno della mia età e si trova lì per caso, per accompagnare un’amica che è appena uscita dal locale. Si è separata dal marito da meno di due mesi ed è ancora confusa; con quella sua amica pensava di iscriversi ad una scuola di ballo. La situazione si prospetta interessante: è sentimentalmente libera e sta cercando un nuovo compagno…
Con una certa faccia tosta le dico che anch’io avevo pensato di separarmi e mi stavo “guardando intorno”. E’ una ex infermiera che ha lasciato l’attività regolare ma continua a lavorare “in autonomia” per conto di una cooperativa che fornisce personale paramedico alle strutture ospedaliere.






“Io lavoro *****”, la informo, ed aggiungo: “ma i miei veri interessi sono di tutt’altro genere: la musica, la letteratura, l’arte, ecc. E proprio in questo periodo sto frequentando un corso di scrittura creativa per ‘mettermi alla prova’ come scrittore e dedicarmi finalmente a qualcosa più gratificante”. Questa mia ultima frase risveglia la sua attenzione: “Oh, ma allora se ti racconto la mia storia tu riusciresti a scriverla? La mia vita è un romanzo!”. Affermazione un po’ ingenua, tipica delle persone semplici che ritengono le loro vicende personali degne di nota o addirittura “memorabili” per il solo motivo che … loro ne sono i protagonisti. Comunque, prendo la palla al balzo e le dico che al giorno d’oggi un libro “vende” se parla di amore e soprattutto di sesso (Penso al “diario” scandalistico: melissa p. 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire, che ha venduto milioni di copie, ma non lo menziono essendo più che certo di non avere a che fare con una profonda conoscitrice di fenomeni editoriali e “best seller” contemporanei).





Con una risatina imbarazzata mi fa capire che la sua vicenda fuori dal comune comprende anche il sesso; ad ogni modo il progetto del libro è l’aggancio giusto per poterla rivedere. “Dobbiamo incontrarci così mi racconti la tua storia e poi proviamo a scriverla”. Le chiedo di scambiarci il numero di telefono; mentre si piega per frugare dentro la borsa alla ricerca del cellulare, ho una meravigliosa visione del giunonico petto, a stento trattenuto dalla camicetta e così generosamente debordante da ostacolarle la manovra. Fatto lo scambio dei numeri, ci salutiamo e usciamo separatamente dal locale.

Nei giorni che seguirono il fortunoso evento, presi l’iniziativa di telefonare alla mia eroina da feuilleton, che d’ora in poi chiamerò Silvana, contando sul fatto che era necessario vederci di nuovo per organizzare la “scaletta”, la traccia di quel nostro progetto letterario. Per almeno una settimana, gli impegni e gli orari di lei non collimavano con le mie proposte, dato che anch’io non potevo disporre liberamente del mio tempo. Comunque le telefonate e i messaggini e la corte discreta, avevano indotto la mia corrispondente ad aprirsi con una certa fiducia: alle volte era lei che mi chiamava, anche in momenti un po’ imbarazzanti, sul lavoro, raccontandomi con dovizia di particolari i fatti del giorno che più l’avevano scossa e io, da buon confidente e samaritano, la ascoltavo e le esponevo la mia pacata interpretazione degli avvenimenti privati, non propriamente memorabili o rocamboleschi, che la inquietavano (sgarbi da parte di una collega di reparto, incomprensioni, strani comportamenti del medico di turno, ecc.).
Alle volte manifestava un candore, un’ingenuità d’animo, un’innocenza quasi disarmante. Mi chiedeva come mai avessi preso così a cuore i sui problemi, voleva evidentemente essere rassicurata circa le mie “buone” intenzioni, ma io mi astenevo dal darle delle risposte così intime per telefono dicendole che di questo si poteva parlare solo a quattr’occhi, anche per indurla, a concedermi quel benedetto primo appuntamento. In quel periodo di intense comunicazioni telefoniche, consumai l’intera ricarica del cellulare che normalmente mi sarebbe bastata per un anno; ma si sa, la gestione di un’amante o la sua ricerca è un’attività maschile assai dispendiosa.
Dopo oltre una settimana, durante la quale avevo dato corso a tutta la diplomazia di cui disponevo e all’infinita pazienza cui ero stato educato dai miei fallimentari trascorsi in ambito amoroso, giunsi finalmente a strapparle il consenso per una disimpegnata chiacchiera al bar. Scelse un locale abbastanza distante da casa sua, dove non correva il rischio di incontrare persone che avrebbero potuto riconoscerla, quasi fosse lei quella che doveva temere di più lo “scandalo” di essere scoperta a conversare con un uomo diverso dal proprio marito, da cui peraltro era ufficialmente separata, e non io, ancora regolarmente sposato. Ad ogni modo, quelle sue precauzioni, assolutamente sproporzionate alla portata del “rischio”, erano un buon viatico all’evolvere di una relazione clandestina, in quanto creavano un alone di peccaminosa complicità attorno ai due futuri adulteri.
Tuttavia, nonostante le premesse, contraddistinte da quell’eccesso di circospezione e cautela che sembrava volesse maliziosamente suggerire proprio ciò che sembrava escludere (tipico comportamento femminile, del resto…), il breve incontro al bar si svolse nel più innocente dei modi. Lei mi parlò della sua situazione familiare: suo figlio, ormai trentenne, lavorava in un’altra città; il marito, che sembrava essere rinato dopo la loro separazione, era già andato a convivere con quella che era stata la sua amante. Silvana viveva da sola nella casa di proprietà accanto a quella della madre: le due donne, prive entrambe del marito, si facevano compagnia a vicenda. Non era un soggetto particolarmente interessante per una storia, da un punto di vista letterario, ma erano informazioni utili per avere un’eventuale “storia” con Silvana.
La mia infermiera nutriva velleità artistiche: si dilettava nel disegno seguendo unicamente il proprio estro e l’ispirazione; tuttavia non pareva avesse la benché minima nozione di storia dell’arte, di stili, tecniche, scuole o correnti di pittura moderna e, in ogni caso, si sentiva impedita da una sorta di virginale pudore a mostrare le sue “opere” in pubblico e tanto meno era disposta a farle valutare da qualche estimatore d’arte. Il breve colloquio che avrei voluto includere nella mia strategia di assedio e conquista si concluse senza vinti né vincitori, però lasciava aperta la possibilità di una conoscenza più approfondita.
Passò un’altra settimana di proposte da parte mia, di chiacchiere, di messaggi, di confidenze, tutte risolte attraverso il mezzo telefonico: importuno e ingiustificato cresceva dentro di me il fastidioso senso di colpa dell’ingannatore dilettante, e questo prima ancora di aver commesso il più veniale dei peccati. Potenza dell’educazione cattolica: riesce a farti sentire un essere abbietto già solo fantasticando su una remota possibilità di tradimento! Del resto le tavole della Legge che un tremendo Iddio aveva dettato a Mosè stigmatizzavano non solo l’atto della fornicazione, ma anche il semplice desiderare la donna d’altri...
L’incontro al bar si era concluso con una “patta”: io non avevo chiarito la mia posizione, né avevo colto indizi o segnali espliciti che preludessero ad una maggiore intimità, ma nemmeno segni di resistenza o di chiusura. Decisi di ritornare alla carica per sbloccare quella situazione di impasse e farla evolvere, se possibile, da una fase di “studio” ad una di totale abbandono al dolce imperio dell’amore.
Le proposi un’uscita di sera: cena più concerto di jazz. L’occasione era ghiotta poiché l’evento musicale non era da fanatici del genere ma si prospettava come un godibilissimo omaggio al tango di Astor Piazzola, con i pezzi dell’originale compositore argentino riproposti in forma jazzistica.




















Eventualmente, se il dopo cena si fosse prospettato interessante anche senza il commento musicale, avrei potuto rinunciare al concerto.
Silvana accettò: coincideva con la sua giornata libera e non erano previsti cambi di turno per coprire l’assenza di qualche collega. Ci accordammo per una certa ora, offrendomi di venirla a prendere. Lei fece la controproposta di vederci direttamente sul posto o in un bar lungo il tragitto e poi proseguire insieme.
Tutti quei sotterfugi escogitati senza troppa convinzione dalla pudica fanciulla per evitare che la madre e i vicini scoprissero che usciva di sera con uno sconosciuto, mi facevano sentire un poco di buono, un bieco profittatore, un riprovevole opportunista che insidiava la virtù dell’ingenua verginella. Questa comica situazione, pur nella sua anacronistica assurdità, aveva un risvolto positivo: la stagionata gallinella accettava il rischio di essere sbranata dal lupo cattivo, quindi era in qualche modo disposta ad essere concupita dal subdolo seduttore, premessa indispensabile al buon esito di qualunque conquista.
Alla fine la vittima designata accettò che mi recassi a casa sua, dato che un’imprevista sostituzione pomeridiana le lasciava poco tempo per prepararsi ed uscire con la sua macchina, ma avrei dovuto attenderla in auto, a qualche metro di distanza dal viottolo che conduceva alla sua abitazione, cercando di non dare nell’occhio: mi avrebbe raggiunto appena pronta preavvisandomi con il cellulare. Degna di un film di spionaggio, quella macchinosa manovra cui pazientemente mi sottoponevo era coerente con la piccola bugia a cui la mia complice era ricorsa per nascondere alla madre il nostro primo incontro al bar: aveva giustificato l’uscita dicendo che andava a prendere le pizze da consumare per cena. Come in quella vecchia canzone di Morandi, “Fatti mandare dalla mamma…”, dove un focoso giovanotto, dovendo urgentemente chiedere spiegazioni alla fidanzatina, imponeva a quest’ultima di raggiungerlo al più presto con la scusa di andare a “prendere il latte”:


scene che fanno un po’ sorridere, come nelle commedie all’italiana anni ’60, storie d’altri tempi, di antico sapore strapaesano, di cui si è ormai persa la memoria…



[segue nel post qui sotto]

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