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venerdì 26 ottobre 2007

La città del disamore (III)

La città del disamore
(Parte III)


Ero sedotto dalla simpatia e dalle argomentazioni di quel colto e avveduto signore. Egli vuotò il boccale di birra che aveva davanti e riprese:
- In un clima come quello che ti ho descritto, si inserisce la drammatica vicenda del Tasso. La sua produzione poetica è profondamente segnata dagli avvenimenti della sua vita. Nasce a Sorrento, in una terra solare e umanamente calda, piena di luce, di profumi, di colori; dove l’aria è tersa, il sole è giallo, il cielo azzurro, l’acqua blu o verde smeraldo come nelle cartoline o nei disegni dei bambini. Ha circa 10 anni quando si separa dalla madre – di cui rimarrà orfano dopo 2 anni - per raggiungere il padre a Roma; a 21 anni viene per la prima volta a contatto con la corte estense. Qui l’ambiente fisico e sociale è ben diverso da quello d’origine. Respira l’aria malsana della nostra città; il suo animo sensibile e delicato percepisce la chiusura, l’impermeabilità alle emozioni, la mancanza d’amore che affligge i sudditi del duca ed entra in una profonda crisi esistenziale che, proprio come l’Ariosto aveva immaginato per il suo Orlando, lo porta alla pazzia.



Viene rinchiuso, per ben 7 anni, nell’ospedale di S. Anna che, allora come oggi, è sempre stato un manicomio…



Delacroix, Tasso in the Hospital of S. Anna, Ferrara







- Be’, non è proprio così: l’Arcispedale S. Anna è una moderna struttura sanitaria, non un manicomio! – lo interruppi.
- No, no!...E’ proprio un manicomio. Basta pensare a quel che hanno combinato con il nuovo polo ospedaliero di Cona!... –
- Ah!, ah!.. Velenoso! …

Dunque il Tasso proveniva dalla “terra dove crescono i limoni”, come cantava Goethe…
- Si, per finire in quella dove crescono i meloni!
- Ahi!, Ahi!... Povero Torquato!
- E povero Goethe!...


Ritornando al Tasso, il poveretto era arrivato a Ferrara poco più che ragazzo. Avrebbe avuto bisogno di una donna dolce, tenera, coccolona, premurosa che si fosse curata di lui come una mamma, ma trovò l’algida compostezza delle fanciulle nostrane, il principesco distacco delle donne di corte; trovò la neutralità dei sentimenti, le emozioni trattenute, i toni spenti del paesaggio, il silenzio, la nebbia. Aveva cercato di ottenere benevolenza e favori dalle “muse” ferraresi cui dedicava i suoi versi, recuperando l’intenso lirismo raggiunto dal Petrarca nel celebrare la sua Laura; si era piegato alle lusinghe, alle blandizie, agli encomi, ma invano: le “vaghe ninfe del Po” lo escludevano dai loro giochi amorosi. Era un disadattato, un’anima inquieta e tormentata che scontava le sue carenze affettive, i rigidi scrupoli morali e l’ossessione dal peccato, da cui cercava di redimersi vestendo il ruvido saio della devozione religiosa.
Possiamo leggere questa dolorosa esperienza fra le righe della sua produzione artistica, dove i personaggi sono la proiezione del mondo interiore del poeta, pervasa di malinconia, di languori protoromantici, di profonda tristezza. Essi vivono amori sfortunati, inespressi, non corrisposti o non riconosciuti.
Il pastore Aminta è innamorato della bella cacciatrice Silvia, la quale però ignora e disprezza l’amore, essendo devota a Diana. La cruda ninfa si lascia infine convincere dal gesto estremo del pastore che si era gettato da una rupe e sembrava moribondo: come per Angelica, è la compassione a fare da apripista all’amore in un cuore acerbo, ma nel Tasso il “lieto fine”, la corrispondenza d’amore, è una pura illusione e il poeta non ci fa assistere di persona al commovente episodio della rivelazione, così come in precedenza aveva evitato il dialogo diretto dei due protagonisti. La scena madre, che i moderni sceneggiatori di fiction televisive non si sarebbero fatti scappare per il suo appetitoso pathos emotivo, è mediata attraverso il racconto di un pastore.
Nella Gerusalemme liberata la frustrazione dei sentimenti non risparmia neppure la maga Armida la quale non riesce a trattenere Rinaldo - richiamato a guerreschi e cristiani doveri - nel giardino incantato da lei predisposto per una dolce prigionia.

Francesco Hayez, Rinaldo e Armida, 1812-1813


Sisto Badalocchio: L'addio di Rinaldo da Armida, 1614


Erminia si strugge d’amore per il valoroso crociato Tancredi, il quale – come spesso succede – non ne sa nulla ed è a sua volta perdutamente innamorato di una bionda guerriera saracena, Clorinda, pure lei ignara di tale interesse.

Erminia non si fa alcuna illusione che il suo amore segreto – privo di ogni valenza erotica – possa essere soddisfatto. In lei la passione si sublima nel casto desiderio di poter medicare e curare le ferite in battaglia inflitte al nobile cavaliere: tipico inghippo psicanalitico per cui il “peccaminoso” desiderio sessuale, avente per oggetto il corpo dell’amato, si nasconde sotto la nobile insegna di una premura eticamente accettabile.

Tancredi (Dipinto di P. Finoglio)


Matteo Rosselli (Firenze 1578 - 1650) Tancredi medicato da Erminia e Vafrino Olio su tela, Firenze, depositi delle Gallerie


Ma il dr. Freud ci aiuta anche ad interpretare la triste storia di Tancredi e Clorinda che culmina nel notissimo episodio del combattimento, dove, per uno sciagurato equivoco, è lo stesso eroe cristiano a ferire mortalmente la donna che ama.

G. M. Crespi, Scena di battaglia: Clorinda e Tancredi, 1725


Tancredi uccide simbolicamente la componente emotiva, femminile, della propria anima; sopprime i sogni, le passioni, i desideri che egli non riconosce a sé stesso in quanto racchiusi in una rigida corazza di doveri, di superiori necessità, di precetti religiosi. Ma il mortale epilogo potrebbe anche leggersi come un’inconscia “vendetta” del Tasso rivolta contro le donne oggetto dei suoi infelici amori, celate entro la loro fredda armatura impenetrabile ai sentimenti. E così lo sfortunato poeta salda definitivamente il conto con la stirpe delle donne guerriere di casa d’Este.


Domenico Tintoretto, Tancredi battezza Clorinda, 1585


- Terribile! Avevo sempre creduto che il Tasso fosse di indole triste e lamentosa per motivi di carattere, così come uno può nascere casanova e un altro sfigato.
- La “sfiga”, come tu la chiami, non ha una base genetica o ereditaria: è la conseguenza di qualcosa che è andato storto nel rapporto del bambino con i propri genitori; in particolare, per ciò che riguarda i maschi, è il prodotto di un’insoddisfacente relazione affettiva con la prima donna della loro vita, la madre. E la carenza di affetti, il senso di frustrazione e di inferiorità che ne deriva, la scarsa autostima possono portare a esiti spaventosi nello sviluppo della personalità adulta.
Un esempio, manco a dirlo, lo abbiamo proprio qui a Ferrara, dove la privazione d’amore è di casa. Tu sai che la nostra città è giustamente considerata la culla della corrente pittorica detta della Metafisica… – Annuii. – Dopo lo scoppio della guerra, nel 1916, Giorgio De Chirico e il fratello Andrea, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Alberto Savinio, sono distaccati a Ferrara perché giudicati inabili per il fronte. Presso l’ospedale militare, Giorgio dipinge i quadri metafisici che lo renderanno famoso, influenzando altri artisti casualmente raccolti attorno a quel insolito atelier allestito in una stanzetta dell’ospedale. Si tratta di Carlo Carrà, reduce da un’esperienza futurista, del ferrarese Filippo de Pisis e di Giorgio Morandi. De Chirico è malinconico e Carrà ha quei problemi di salute che noi oggi definiremmo “psicosomatici”, ma ormai conosciamo l’origine dei fenomeni depressivi che l’ambiente cittadino provoca alle persone ipersensibili quando vengono a contatto con la dimensione metafisica, l’irrealtà, i colori smorzati, l’emotività sospesa di Ferrara.
De Chirico, forse per reagire ad un complesso edipico paralizzante e all’invadenza di una madre volitiva, nella prima giovinezza si era avvicinato al pensiero filosofico di tre grandi misogini: Schopenhauer, Nietzsche e Weininger. I primi due certamente li conosci; Otto Weininger è l’autore di un monumentale testo di metafisica dei sessi, in cui, con argomentazioni pseudoscientifiche, distingue la superiorità dell’essere maschile, produttivo, razionale, logico, dalla caotica irrazionalità del femminile che tende a vanificare tutte le conquiste della ragione. Weininger si suicida, alla giovane età di 23 anni, poco dopo la pubblicazione del suo libro fondamentale, Sesso e carattere. Ciò dimostra quanto sia pericoloso andare controcorrente parlando male delle donne… Come minimo, rischi che i tuoi scritti non vengano pubblicati, o il rapido oblio.


Otto Weininger


Sarebbe interessante indagare sul legame che sussiste fra la misoginia dei grandi filosofi metafisici e il loro personale vissuto anafettivo…
- …vissuto anafettivo?... – lo interruppi.
- Si, insomma, le carenze affettive, la percezione di una madre “distante”, la mancanza di sesso e di amore. In fondo, la misoginia non è altro che la sublimazione della sfiga. –
- Ah!
- Giorgio è evidentemente influenzato dalla teoria nietzschiana del “Superuomo”, ma anche il fratello Andrea, approda ad un’originale formulazione di “autarchia” sessuale simboleggiata dal “hermaphrodito”, l’organismo che contiene sia l’elemento maschile che quello femminile, l’individuo completo, autosufficiente che si feconda da sé, liberandosi dalla costrizione del desiderio sessuale, visto da Savinio come una malattia, una catena, un ostacolo alla libera espressione delle potenzialità dell’uomo.

Alberto Savinio, Il riposo di Hermaphrodito, 1944-45, olio su tela, cm 20x34,5


In questo humus di infatuazione maschilista, misoginia, omosessualità latente, cui faceva da cornice l’ambientazione surreale di Ferrara, De Chirico dipinge il quadro-manifesto della Metafisica, Le muse inquietanti.




Non ho alcun dubbio a sostenere che le figure femminili poste in primo piano, manichini senza volto, enigmatici, inespressivi, con il Castello Estense nello sfondo, siano l’essenza metafisica delle donne ferraresi, oggetti inanimati al posto di esseri viventi, ma entrambi senza passioni, senza emozioni, irreali, indecifrabili, muti come le muse del Tasso e dunque inquietanti.
- Oh, questa è grossa!... Scusa l’indiscrezione: in un ambiente così inadatto all’amore, tu sei riuscito a trovarti una donna? – chiesi con viva curiosità.
- Ho avuto i miei problemi, certo, ma ora ho per le mani una bella cubana…eh, eh.
Risi di gusto. Stavo per chiedere qualche consiglio a quel arguto concittadino, quando la suoneria del cellulare mi riportò bruscamente alla realtà: era Angelica! Mi alzai dal tavolo in cerca di un angolo con meno confusione. In tono distaccato, Angelica mi chiedeva se volevo riavere indietro l’anello di fidanzamento, più altre cose che le avevo prestato. Risposi che l’anello era comunque suo e mi misi d’accordo per il resto.
Quando ritornai al tavolo l’uomo non c’era più. Il ragazzo del banco mi riferì che aveva pagato per tutti e due ed era uscito, pregandomi di scusarlo per l’impossibilità di salutarmi… Non l’avrei mai più rivisto…e neppure conoscevo il suo nome…
Uscii. La nebbia si era di nuovo impadronita della città, avvolgendola nel secolare oblio; ma quella lenta agonia non mi riguardava più. Ora ne conoscevo il segreto e sarei sfuggito al suo mortale abbraccio: ragazze allegre, spensierate, disponibili mi attendevano sulle spiagge assolate di Cuba, del Brasile, dei Caraibi...


[fine]

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